1 Note biografiche
Primogenito di una famiglia di nobiltà pontificia crebbe in un ambiente retrivo e conformista, frustrato nel naturale bisogno d'affetto da un padre che ne voleva fare una sorta di ragazzo prodigio e da una madre tanto bigotta da fuggire manifestazioni d'affetto.
Ricevuta la prima formazione da precettori ecclesiastici iniziò una febbrile attività come autodidatta, attingendo nella ricca biblioteca paterna alla letteratura italiana e alle letterature classiche, studiando l'ebraico, coltivando vaste curiosità scientifiche e filosofiche, formandosi in breve tempo una variegata erudizione e una solida preparazione storico-filologica.
Gli scritti giovanili prodotti tra i dieci e i sedici anni sono lo specchio di questa multiforme attività che gli aveva aperto gli ampi orizzonti della cultura classica rendendogli ancor più insopportabile l'autoritarismo paterno e l'angusto mondo di Recanati.
Le sue precarie condizioni fisiche intanto peggioravano anche per gli anni passati giorno e notte a tavolino, accentuando il senso di esclusione da un'esistenza normale e costringendolo a lunghi periodi di inattività.
Tutto ciò contribuì ad alimentare quella componente di infelicità disperata, che pervade la sua opera, che, se da un lato avvicina la voce di Leopardi ai romantici europei, dall'altro la rende un grido del tutto solitario, perché il suo pessimismo non è espressione di un'oscuro e indeterminato sentire dell'animo, ma di una lucida volontà razionale, che, interrogando fino in fondo il senso dell'esistere, constata l'infelicità costituzionale della condizione umana, in balia di una natura matrigna ed ostile.
Si apriva frattanto la prima grande stagione poetica di Leopardi quella dei primi Idilli (L'infinito, Alla luna, La sera del dì di festa...).
Nel 1822 ottenne il permesso di poter finalmente evadere dal «natio borgo selvaggio» per recarsi a Roma. Ma la Roma della Restaurazione fu una delusione: scialbi gli esponenti della cultura ufficiale pontificia, convenzionale l'ambiente letterario, meschina la vita romana. Di ritorno a Recanati si dedicò alla prosa delle Operette morali, con cui poteva indagare tra il filosofico, il satirico e il fantastico il senso del vivere.
Negli anni successivi si trasferì a Milano, poi a Bologna, poi a Firenze, infine a Pisa, per far ritorno a Recanati a seguito di un riacutizzarsi della malattia. Qui compose i Grandi Idilli che nel 1831 confluiranno con i primi idilli nei Canti.
Nel 1830 può lasciare definitivamente Recanati per trasferirsi a Firenze dove amici fiorentini gli avevano messo a disposizione una somma. Qui strinse una duratura amicizia con l'esule napoletano Antonio Ranieri e conobbe l'amore sfortunato per Fanny Targioni Tozzetti, una dama che attratta da velleità culturali aveva lasciato in un primo tempo illudere Leopardi.
Alla ricerca di un clima migliore per far fronte meglio a condizioni di salute che peggiorano sempre, nel 1833 si reca con Ranieri a Napoli dove attende alle edizioni definitive delle Operette morali (1834) e dei Canti (1835) prima di morire, assistito dall'amico napoletano, nel 1837.
2 Storia dell’astronomia
Giacomo Leopardi a quindici anni scrive una storia dell’astronomia di straordinaria erudizione, in cui tra l’altro compendia le teorie newtoniane. La contemplazione del cielo notturno che ispirerà a Leopardi i suoi versi più belli non era solo un motivo lirico; quando parlava della luna Leopardi sapeva esattamente di cosa parlava (I. Calvino, Lezioni americane, Garzanti, 1988, p. 26).
Storia dell’astronomia dalla sua origine fino all’anno 1811 (1813).
È una delle opere giovanili più interessanti per la vastità dell’erudizione del Leopardi quindicenne e per il senso di entusiastica ammirazione di fronte allo spettacolo della natura.
3 La luna
Leopardi, nel suo ininterrotto ragionamento sull’insostenibile peso del vivere, dà alla felicità irraggiungibile immagini di leggerezza: gli uccelli, una voce femminile che canta da una finestra, la trasparenza dell’aria, e soprattutto la luna. [...] Le numerose apparizioni della luna nelle sue poesie occupano pochi versi ma bastano a illuminare tutto il componimento di quella luce o a proiettarvi l’ombra della sua assenza (ivi).
Alla luna
O graziosa luna, io mi rammento
che, or volge l’anno, sovra questo colle
io venia pien d’angoscia a rimirarti:
e tu pendevi allor su quella selva
siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, nè cangia stile,
O mia diletta luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l'etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l'affanno duri!
La sera del dì di festa
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna.
La vita solitaria
(vv. 70-107)
O cara luna, al cui tranquillo raggio
danzan le lepri nelle selve; e duolsi
alla mattina il cacciator, che trova
l'orme intricate e false, e dai covili
error vario lo svia; salve, o benigna
delle notti reina. Infesto scende
il raggio tuo fra macchie e balze o dentro
a deserti edifici, in su l'acciaro
del pallido ladron ch'a teso orecchio
il fragor delle rote e de' cavalli
da lungi osserva o il calpestio de' piedi
su la tacita via; poscia improvviso
col suon dell'armi e con la rauca voce
e col funereo ceffo il core agghiaccia
al passegger, cui semivivo e nudo
lascia in breve tra' sassi. Infesto occorre
per le contrade cittadine il bianco
tuo lume al drudo vil, che degli alberghi
va radendo le mura e la secreta
ombra seguendo, e resta, e si spaura
delle ardenti lucerne e degli aperti
balconi. Infesto alle malvage menti,
a me sempre benigno il tuo cospetto
sarà per queste piagge, ove non altro
che lieti colli e spaziosi campi
m'apri alla vista. Ed ancor io soleva,
bench'innocente io fossi, il tuo vezzoso
raggio accusar negli abitati lochi,
quand'ei m'offriva al guardo umano, e quando
scopriva umani aspetti al guardo mio.
Or sempre loderollo, o ch'io ti miri
veleggiar tra le nubi, o che serena
dominatrice dell'etereo campo,
questa flebil riguardi umana sede.
Me spesso rivedrai solingo e muto
errar pe' boschi e per le verdi rive,
o seder sovra l'erbe, assai contento
se core e lena a sospirar m'avanza.
Il sabato del villaggio
Già tutta l’aria imbruna,
torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre
giù da’ colli e da’ tetti,
al biancheggiar della recente luna.
Canto notturno di un pastore solitario per l’Asia
(vv. 5-20)
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?
4 Zibaldone di pensieri
Giacomo Leopardi, nella sua giovinezza quanto mai sedentaria, trovava uno dei rari momenti gioiosi quando scriveva nelle note del suo Zibaldone: «La velocità, per esempio, de’ cavalli o veduta, o sperimentata, cioè quando essi vi trasportano (...) è piacevolissima per sé sola, cioè per la vivacità, l’energia, la forza, la vita di tal sensazione. Essa desta realmente una quasi idea dell’infinito, sublima l’anima, la fortifica... » (27 Ottobre 1821) (p. 42).
Zibaldone di pensieri
È la raccolta copiosissima degli appunti, delle annotazioni, dei pensieri, delle riflessioni che Leopardi incominciò ad accumulare su vari quaderni per uso personale a partire dal 1817 e proseguita con varia intensità fino al 1832, per un totale di 4526 facciate, conservate ora alla Biblioteca Nazionale di Napoli.
Lo Zibaldone, pubblicato la prima volta in occasione del centenario della nascita del poeta con il titolo di Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, ora adotta il titolo[1] usato dall’autore quando intraprese a Firenze nel 1827 la compilazione dell’indice analitico.
Lo Zibaldone registra in modo libero le letture, le interrogazioni, gli interessi di Leopardi costituendo una fonte preziosa dell’evoluzione del suo pensiero e della genesi delle sue opere.
Ne scaturisce l’immagine filosofica di Leopardi che proprio nella trattazione rapsodica dello Zibaldone dimostra la forza di una filosofia che, sgravata dalle convenzioni di costruire un sistema ordinato, registra, come la poesia, le domande fondamentali che ogni uomo si dovrebbe porre di fronte al vivere.
Da un’iniziale esaltazione della natura, fonte di vitalità e stimolatrice di generose ‘illusioni’ contrapposta all’arido ‘vero’ delle moderne società civilizzate, l’adesione al sensismo e l’accostamento al meccanicismo materialistico lo porta ad approdare al pessimismo cosmico di cui sono espressione le Operette morali, secondo cui la natura è una forza cieca indifferente ai patimenti e ai desideri delle creature e al palpito di ogni forma di vita, in un inesorabile processo di trasformazione.
5 Operette morali
In questa predilezione per le forme brevi non faccio che seguire la vera vocazione della letteratura italiana, povera di romanzieri ma sempre ricca di poeti, i quali anche quando scrivono in prosa danno il meglio di sé in testi in cui il massimo di invenzione e di pensiero è contenuto in poche pagine, come quel libro senza uguali in altre letterature che è le Operette morali di Leopardi (I. Calvino, Lezioni americane, Garzanti 1988, p. 48).
È l’opera più cospicua dopo la stagione dei primi Idilli nella quale trova concretezza ed organicità il pensiero leopardiano. Scritte per lo più nel corso del 1824 alcune nella forma dialogica, altre come riflessione teorica, sospese tra l’ironico-satirico di tipo lucianesco e l’argomentativo a più voci di tipo platonico, le Operette con la loro prosa capace di slanci intensamente lirici e della precisione rigorosa della speculazione filosofica, trasformano il materiale dell’immaginario classico, delle tradizioni mitico-religiose e, più in generale gli ideali del suo tempo e dell’uomo, visti da una prospettiva estranea alla normale dimensione, in uno spietato elenco di illusioni della grandezza del destino umano.
Cantico del gallo silvestre
Schema
1. Introduzione ironica in cui il traduttore del Cantico con toni solenni indica le difficoltà di traduzione del cantico caldeo del gallo il quale sta sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo.
2. Invito al risveglio. Sorgete: ripigliatevi la soma della vita...
3. Io dimando a te, o sole, ... vedesti tu alcuna volta un solo tra i viventi esser beato?
4. Paragone tra i momenti della giornata e le età dell’uomo, per spiegare perché il principio del mattino per lo più racconsola, ma per poco, perché come il fior degli anni, appena sperimentato appassisce, perché la massima parte del vivere è un appassire.
5. Solo l’universo apparisce immune dallo scadere e languire, poiché sempre alla nuova stagione ringiovanisce.
6. Ma siccome i mortali, se bene in sul primo tempo di ciascun giorno racquistano alcuna parte di giovanezza, pure invecchiano tutto dì, e finalmente si estinguono; così l’universo, benché nel principio degli anni ringiovanisca, nondimeno continuamente invecchia. Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi nè segno, nè fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi.
Testo
Affermano alcuni maestri e scrittori ebrei, che tra il cielo e la terra, o vogliamo dire mezzo nell'uno e mezzo nell'altra, vive un certo gallo salvatico; il quale sta in sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo. Questo gallo gigante, oltre a varie particolarità che di lui si possono leggere negli autori predetti, ha uso di ragione; o certo, come un pappagallo, è stato ammaestrato, non so da chi, a profferir parole a guisa degli uomini: perocché si è trovato in una cartapecora antica, scritto in lettera ebraica, e in lingua tra caldea, targumica, rabbinica, cabalistica e talmudica, un cantico intitolato, Scir detarnegòl bara letzafra, cioè Cantico mattutino del gallo silvestre: il quale, non senza fatica grande, né senza interrogare più d'un rabbino, cabalista, teologo, giurisconsulto e filosofo ebreo, sono venuto a capo d'intendere, e di ridurre in volgare come qui appresso si vede. Non ho potuto per ancora ritrarre se questo Cantico si ripeta dal gallo di tempo in tempo, ovvero tutte le mattine; o fosse cantato una volta sola; e chi l'oda cantare, o chi l'abbia udito; e se la detta lingua sia proprio la lingua del gallo, o che il Cantico vi fosse recato da qualche altra. Quanto si è al volgarizzamento infrascritto; per farlo più fedele che si potesse (del che mi sono anche sforzato in ogni altro modo), mi è paruto di usare la prosa piuttosto che il verso, se bene in cosa poetica. Lo stile interrotto, e forse qualche volta gonfio, non mi dovrà essere imputato; essendo conforme a quello del testo originale: il qual testo corrisponde in questa parte all'uso delle lingue, e massime dei poeti, d'oriente.
Su, mortali, destatevi. Il dì rinasce: torna la verità in sulla terra e partonsene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero.
Ciascuno in questo tempo raccoglie e ricorre coll'animo tutti i pensieri della sua vita presente; richiama alla memoria i disegni, gli studi e i negozi; si propone i diletti e gli affanni che gli sieno per intervenire nello spazio del giorno nuovo. E ciascuno in questo tempo è più desideroso che mai, di ritrovar pure nella sua mente aspettative gioconde, e pensieri dolci. Ma pochi sono soddisfatti di questo desiderio: a tutti il risvegliarsi è danno. Il misero non è prima desto, che egli ritorna nelle mani dell'infelicità sua. Dolcissima cosa è quel sonno, a conciliare il quale concorse o letizia o speranza. L'una e l'altra insino alla vigilia del dì seguente, conservasi intera e salva; ma in questa, o manca o declina.
Se il sonno dei mortali fosse perpetuo, ed una cosa medesima colla vita; se sotto l'astro diurno, languendo per la terra in profondissima quiete tutti i viventi, non apparisse opera alcuna; non muggito di buoi per li prati, né strepito di fiere per le foreste, né canto di uccelli per l'aria, né susurro d'api o di farfalle scorresse per la campagna; non voce, non moto alcuno, se non delle acque, del vento e delle tempeste, sorgesse in alcuna banda; certo l'universo sarebbe inutile; ma forse che vi si troverebbe o copia minore di felicità, o più di miseria, che oggi non vi si trova? Io dimando a te, o sole, autore del giorno e preside della vigilia: nello spazio dei secoli da te distinti e consumati fin qui sorgendo e cadendo, vedesti tu alcuna volta un solo infra i viventi essere beato? Delle opere innumerabili dei mortali da te vedute finora, pensi tu che pur una ottenesse l'intento suo, che fu la soddisfazione, o durevole o transitoria, di quella creatura che la produsse? Anzi vedi tu di presente o vedesti mai la felicità dentro ai confini del mondo? in qual campo soggiorna, in qual bosco, in qual montagna, in qual valle, in qual paese abitato o deserto, in qual pianeta dei tanti che le tue fiamme illustrano e scaldano? Forse si nasconde dal tuo cospetto, e siede nell'imo delle spelonche, o nel profondo della terra o del mare? Qual cosa animata ne partecipa; qual pianta o che altro che tu vivifichi; qual creatura provveduta o sfornita di virtù vegetative o animali? E tu medesimo, tu che quasi un gigante instancabile, velocemente, dì e notte, senza sonno né requie, corri lo smisurato cammino che ti è prescritto; sei tu beato o infelice?
Mortali, destatevi. Non siete ancora liberi dalla vita. Verrà tempo, che niuna forza di fuori, niuno intrinseco movimento, vi riscoterà dalla quiete del sonno; ma in quella sempre e insaziabilmente riposerete. Per ora non vi è concessa la morte: solo di tratto in tratto vi è consentita per qualche spazio di tempo una somiglianza di quella. Perocché la vita non si potrebbe conservare se ella non fosse interrotta frequentemente. Troppo lungo difetto di questo sonno breve e caduco, è male per sé mortifero, e cagione di sonno eterno. Tal cosa è la vita, che a portarla, fa di bisogno ad ora ad ora, deponendola, ripigliare un poco di lena, e ristorarsi con un gusto e quasi una particella di morte.
Pare che l'essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obbietto il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturirono le cose che sono. Certo l'ultima causa dell'essere non è la felicità; perocché niuna cosa è felice. Vero e che le creature animate si propongono questo fine in ciascuna opera loro; ma da niuna l'ottengono: e in tutta la loro vita, ingegnandosi, adoperandosi e penando sempre, non patiscono veramente per altro, e non si affaticano, se non per giungere a questo solo intento della natura, che è la morte.
A ogni modo, il primo tempo del giorno suol essere ai viventi il più comportabile. Pochi in sullo svegliarsi ritrovano nella loro mente pensieri dilettosi e lieti; ma quasi tutti se ne producono e formano di presente: perocché gli animi in quell'ora, eziandio senza materia alcuna speciale e determinata, inclinano sopra tutto alla giocondità, o sono disposti più che negli altri tempi alla pazienza dei mali. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, trovavasi occupato dalla disperazione; destandosi, accetta novamente nell'animo la speranza, quantunque ella in niun modo se gli convenga. Molti infortuni e travagli propri, molte cause di timore e di affanno, paiono in quel tempo minori assai, che non parvero la sera innanzi. Spesso ancora, le angosce del dì passato sono volte in dispregio, e quasi per poco in riso come effetto di errori, e d'immaginazioni vane. La sera è comparabile alla vecchiaia; per lo contrario, il principio del mattino somiglia alla giovanezza: questo per lo più racconsolato e confidente; la sera trista, scoraggiata e inchinevole a sperar male. Ma come la gioventù della vita intera, così quella che i mortali provano in ciascun giorno, è brevissima e fuggitiva; e prestamente anche il dì si riduce per loro in età provetta.
Il fior degli anni, se bene e il meglio della vita, è cosa pur misera. Non per tanto, anche questo povero bene manca in sì piccolo tempo, che quando il vivente a più segni si avvede della declinazione del proprio essere, appena ne ha sperimentato la perfezione, né potuto sentire e conoscere pienamente le sue proprie forze, che già scemano. In qualunque genere di creature mortali, la massima parte del vivere è un appassire. Tanto in ogni opera sua la natura e intenta e indirizzata alla morte: poiché non per altra cagione la vecchiezza prevale sì manifestamente, e di sì gran lunga, nella vita e nel mondo. Ogni parte dell'universo si affretta infaticabilmente alla morte, con sollecitudine e celerità mirabile. Solo l'universo medesimo apparisce immune dallo scadere e languire: perocché se nell'autunno e nel verno si dimostra quasi infermo e vecchio, nondimeno sempre alla stagione nuova ringiovanisce. Ma siccome i mortali, se bene in sul primo tempo di ciascun giorno racquistano alcuna parte di giovanezza, pure invecchiano tutto dì, e finalmente si estinguono; così l'universo, benché nel principio degli anni ringiovanisca, nondimeno continuamente invecchia. Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell'esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi.
Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco
Schema
Rappresenta la versione filosofica del problema cosmologico del Cantico del gallo silvestre.
Preambolo
Strutturato similmente al precedente gioca sull’autenticità del testo che sta traducendo avvisando che la seconda parte, a giudicare dal contenuto, non può che essere stato aggiunta che da qualche dotto Greco non prima del secolo passato.
Della origine del mondo:
La materia (a differenza dei suoi modi di essere, i quali si veggono in quelle che noi chiamiamo creature materiali, [che] sono caduchi e passeggeri) universalmente (nel suo insieme) non si accresce, nè si perde, pertanto non è sottoposta a perire. Ma niun segno di caducità nè di mortalità si scuopre nella materia universalmente, e però niun segno che ella sia cominciata, nè che ad esser bisognasse o pur le bisogni alcuna causa o forza fuori di sè.
Le forze (similmente ai sentimenti umani che sono una medesima passione, cioè l’amor di se stesso) o la forza della materia movendola ed agitandola di continuo forma di essa materia innumerabili creature, il mondo.
Ma non cessando questa forza di operare le distrugge, formandone di nuove.
Contro ogni dualismo (materia-spirito) e contro lo spiritualismo cristiano nega ogni atto creativo e intervento provvidenziale.
Della fine del mondo
La rotazione produce uno schiacciamento dei poli sino a lanciare il pianeta ridotto a un anello come quello di Saturno, che si incendierà nel sole, che come le stelle per la stessa causa si disperderà nell’universo.
La materia originerà nuove creature, un nuovo mondo. Ma le qualità di questo e di quelli, siccome eziandio degli innumerabili che già furono e degli altri infiniti che poi saranno, non possiamo noi nè pur solamente congetturare.
Testo
PREAMBOLO
Questo Frammento, che io per passatempo ho recato dal greco in volgare, è tratto da un codice a penna che trovavasi alcuni anni sono, e forse ancora si trova, nella libreria dei monaci del monte Athos. Lo intitolo Frammento apocrifo perché, come ognuno può vedere, le cose che si leggono nel capitolo della fine del mondo, non possono essere state scritte se non poco tempo addietro; laddove Stratone da Lampsaco, filosofo peripatetico, detto il fisico, visse da trecento anni avanti l'era cristiana. È ben vero che il capitolo della origine del mondo concorda a un di presso con quel poco che abbiamo delle opinioni di quel filosofo negli scrittori antichi. E però si potrebbe credere che il primo capitolo, anzi forse ancora il principio dell'altro, sieno veramente di Stratone; il resto vi sia stato aggiunto da qualche dotto Greco non prima del secolo passato. Giudichino gli eruditi lettori.
DELLA ORIGINE DEL MONDO
Le cose materiali, siccome elle periscono tutte ed hanno fine, così tutte ebbero incominciamento. Ma la materia stessa niuno incominciamento ebbe, cioè a dire che ella è per sua propria forza ab eterno. Imperocché se dal vedere che le cose materiali crescono e diminuiscono e all'ultimo si dissolvono, conchiudesi che elle non sono per sé né ab eterno, ma incominciate e prodotte, per lo contrario quello che mai non cresce né scema e mai non perisce, si dovrà giudicare che mai non cominciasse e che non provenga da causa alcuna. E certamente in niun modo si potrebbe provare che delle due argomentazioni, se questa fosse falsa, quella fosse pur vera. Ma poiché noi siamo certi quella esser vera il medesimo abbiamo a concedere anco dell'altra. Ora noi veggiamo che la materia non si accresce mai di una eziandio menoma quantità, niuna anco menoma parte della materia si perde, in guisa che essa materia non è sottoposta a perire. Per tanto i diversi modi di essere della materia, i quali si veggono in quelle che noi chiamiamo creature materiali, sono caduchi e passeggeri; ma niun segno di caducità né di mortalità si scuopre nella materia universalmente, e però niun segno che ella sia cominciata, né che ad essere le bisognasse o pur le bisogni alcuna causa o forza fuori di sé. Il mondo, cioè l'essere della materia in un cotal modo, è cosa incominciata e caduca. Ora diremo della origine del mondo.
La materia in universale, siccome in particolare le piante e le creature animate, ha in sé per natura una o più forze sue proprie, che l'agitano e muovono in diversissime guise continuamente. Le quali forze noi possiamo congetturare ed anco denominare dai loro effetti, ma non conoscere in sé, né scoprir la natura loro. Né anche possiamo sapere se quegli effetti che da noi si riferiscono a una stessa forza, procedano veramente da una o da più, e se per contrario quelle forze che noi significhiamo con diversi nomi, sieno veramente diverse forze, o pure una stessa. Siccome tutto dì nell'uomo con diversi vocaboli si dinota una sola passione o forza: per modo di esempio, l'ambizione, l'amor del piacere e simili, da ciascuna delle quali fonti derivano effetti talora semplicemente diversi, talora eziandio contrari a quei delle altre, sono in fatti una medesima passione, cioè l'amor di se stesso, il quale opera in diversi casi diversamente. Queste forze adunque o si debba dire questa forza della materia, movendola, come abbiamo detto, ed agitandola di continuo, forma di essa materia innumerabili creature, cioè la modifica in variatissime guise. Le quali creature, comprendendole tutte insieme, e considerandole siccome distribuite in certi generi e certe specie, e congiunte tra sé con certi tali ordini e certe tali relazioni che provengono dalla loro natura, si chiamano mondo. Ma imperciocché la detta forza non resta mai di operare e di modificar la materia, però quelle creature che essa continuamente forma, essa altresì le distrugge, formando della materia loro nuove creature. Insino a tanto che distruggendosi le creature individue, i generi nondimeno e le specie delle medesime si mantengono, tutte o le più, e che gli ordini e le relazioni naturali delle cose non si cangiano o in tutto o nella più parte, si dice durare ancora quel cotal mondo. Ma infiniti mondi nello spazio infinito della eternità, essendo durati più o men tempo, finalmente sono venuti meno, perdutisi per li continui rivolgimenti della materia, cagionati dalla predetta forza, quei generi e quelle specie onde essi mondi si componevano, e mancate quelle relazioni e quegli ordini che li governavano. Né perciò la materia è venuta meno in qual si sia particella, ma solo sono mancati que' suoi tali modi di essere, succedendo immantinente a ciascuno di loro un altro modo, cioè un altro mondo, di mano in mano.
DELLA FINE DEL MONDO
Questo mondo presente del quale gli uomini sono parte, cioè a dir l'una delle specie delle quali esso è composto, quanto tempo sia durato fin qui, non si può facilmente dire, come né anche si può conoscere quanto tempo esso sia per durare da questo innanzi. Gli ordini che lo reggono paiono immutabili, e tali sono creduti, perciocché essi non si mutano se non che a poco a poco e con lunghezza incomprensibile di tempo, per modo che le mutazioni loro non cadono appena sotto il conoscimento, non che sotto i sensi dell'uomo. La quale lunghezza di tempo, quanta che ella si sia, è ciò non ostante menoma per rispetto alla durazione eterna della materia. Vedesi in questo presente mondo un continuo perire degl'individui ed un continuo trasformarsi delle cose da una in altra; ma perciocché la distruzione è compensata continuamente dalla produzione, e i generi si conservano, stimasi che esso mondo non abbia né sia per avere in sé alcuna causa per la quale debba né possa perire, e che non dimostri alcun segno di caducità. Nondimeno si può pur conoscere il contrario, e ciò da più d'uno indizio, ma tra gli altri da questo.
Sappiamo che la terra, a cagione del suo perpetuo rivolgersi intorno al proprio asse, fuggendo dal centro le parti dintorno all'equatore, e però spingendosi verso il centro quelle dintorno ai poli, è cangiata di figura e continuamente cangiasi, divenendo intorno all'equatore ogni dì più ricolma, e per lo contrario intorno ai poli sempre più deprimendosi. Or dunque da ciò debbe avvenire che in capo di certo tempo, la quantità del quale, avvengaché sia misurabile in sé, non può essere conosciuta dagli uomini, la terra si appiani di qua e di là dall'equatore per modo, che perduta al tutto la figura globosa, si riduca in forma di una tavola sottile ritonda. Questa ruota aggirandosi pur di continuo dattorno al suo centro, attenuata tuttavia più e dilatata, a lungo andare, fuggendo dal centro tutte le sue parti, riuscirà traforata nel mezzo. Il qual foro ampliandosi a cerchio di giorno in giorno, la terra ridotta per cotal modo a figura di uno anello, ultimamente andrà in pezzi; i quali usciti della presente orbita della terra, e perduto il movimento circolare, precipiteranno nel sole o forse in qualche pianeta.
Potrebbesi per avventura in confermazione di questo discorso addurre un esempio, io voglio dire dell'anello di Saturno, della natura del quale non si accordano tra loro i fisici. E quantunque nuova e inaudita, forse non sarebbe perciò inverisimile congettura il presumere che il detto anello fosse da principio uno dei pianeti minori destinati alla sequela di Saturno; indi appianato e poscia traforato nel mezzo per cagioni conformi a quelle che abbiamo dette della terra, ma più presto assai, per essere di materia forse più rara e più molle, cadesse dalla sua orbita nel pianeta di Saturno, dal quale colla virtù attrattiva della sua massa e del suo centro, sia ritenuto, siccome lo veggiamo essere veramente, dintorno a esso centro. E si potrebbe credere che questo anello, continuando ancora a rivolgersi, come pur fa, intorno al suo mezzo, che è medesimamente quello del globo di Saturno, sempre più si assottigli e dilati, e sempre si accresca quello intervallo che è tra esso e il predetto globo, quantunque ciò accada troppo più lentamente di quello che si richiederebbe a voler che tali mutazioni fossero potute notare e conoscere dagli uomini, massime così distanti. Queste cose, o seriamente o da scherzo, sieno dette circa all'anello di Saturno.
Ora quel cangiamento che noi sappiamo essere intervenuto e intervenire ogni giorno alla figura della terra, non è dubbio alcuno che per le medesime cause non intervenga somigliantemente a quella di ciascun pianeta, comeché negli altri pianeti esso non ci sia così manifesto agli occhi come egli ci è pure in quello di Giove. Né solo a quelli che a similitudine della terra si aggirano intorno al sole, ma il medesimo senza alcun fallo interviene ancora a quei pianeti che ogni ragion vuole che si credano essere intorno a ciascuna stella. Per tanto in quel modo che si è divisato della terra tutti i pianeti in capo di certo tempo, ridotti per se medesimi in pezzi, hanno a precipitare gli uni nel sole, gli altri nelle stelle loro. Nelle quali fiamme manifesto è che non pure alquanti o molti individui, ma universalmente quei generi e quelle specie che ora si contengono nella terra e nei pianeti, saranno distrutte insino, per dir così, dalla stirpe. E questo per avventura, o alcuna cosa a ciò somigliante, ebbero nell'animo quei filosofi, così greci come barbari, i quali affermarono dovere alla fine questo presente mondo perire di fuoco. Ma perciocché noi veggiamo che anco il sole si ruota dintorno al proprio asse, e quindi il medesimo si dee credere delle stelle, segue che l'uno e le altre in corso di tempo debbano non meno che i pianeti venire in dissoluzione, e le loro fiamme dispergersi nello spazio. In tal guisa adunque il moto circolare delle sfere mondane, il quale è principalissima parte dei presenti ordini naturali, e quasi principio e fonte della conservazione di questo universo, sarà causa altresì della distruzione di esso universo e dei detti ordini.
Venuti meno i pianeti, la terra, il sole e le stelle, ma non la materia loro, si formeranno di questa nuove creature, distinte in nuovi generi e nuove specie, e nasceranno per le forze eterne della materia nuovi ordini delle cose ed un nuovo mondo. Ma le qualità di questo e di quelli, siccome eziandio degl'innumerabili che già furono e degli altri infiniti che poi saranno, non possiamo noi né pur solamente congetturare.
6 Leopardi, poeta del vago
(A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, pp. 218-221)
L’invettiva contro la perdita di capacità conoscitiva del linguaggio definisce in negativo il valore dell’esattezza. Leopardi, poeta del vago, la definisce per absurdum.
Resta da vedere se con argomenti altrettanto convincenti non si possa difendere anche la tesi contraria. Per esempio, Giacomo Leopardi sosteneva che il linguaggio è tanto più poetico quanto più è vago, impreciso (I. Calvino, Lezioni americane, Garzanti, 1988, p. 59).
Zibaldone alla mano Calvino dimostra che «Leopardi per farci gustare la bellezza dell’indeterminato e del vago» confida nella precisione più scrupolosa.
È una attenzione estremamente precisa e meticolosa che egli esige nella composizione d’ogni immagine, nella definizione minuziosa dei dettagli, nella scelta degli oggetti, dell’illuminazione, dell’atmosfera, per raggiungere la vaghezza desiderata. Dunque Leopardi, che avevo scelto come contraddittore ideale della mia apologia dell’esattezza, si rivela un decisivo testimone a favore... Il poeta del vago può essere solo il poeta della precisione, che sa cogliere la sensazione più sottile con occhio, orecchio, mano pronti e sicuri. Vale la pena che continui a leggere questa nota dello Zibaldone fino alla fine; la ricerca dell’indeterminato diventa l’osservazione del molteplice, del formicolante, del pulviscolare... (pp. 60-61).
E da qui al «vago fluttuare delle sensazioni» della «lirica più bella e famosa» di Leopardi il passo è breve.
Nelle sue riflessioni due termini vengono continuamente messi a confronto: indefinito e infinito. Per quell’edonista infelice che era Leopardi, l’ignoto è sempre più attraente del noto, la speranza e l’immaginazione sono l’unica consolazione dalle delusioni e dai dolori dell’esperienza. L’uomo proietta dunque il suo desiderio nell’infinito, prova piacere solo quando può immaginarsi che esso non abbia fine. Ma poiché la mente umana non riesce a concepire l’infinito, anzi si ritrae spaventata alla sola sua idea, non le resta che contentarsi dell’indefinito, delle sensazioni che confondendosi l’una con l’altra creano un’impressione d’illimitato, illusoria ma comunque piacevole. E il naufragar m’è dolce in questo mare: non è solo nella famosa chiusa dell’Infinito che la dolcezza prevale sullo spavento, perché ciò che i versi comunicano attraverso la musica delle parole è sempre un senso di dolcezza, anche quando definiscono esperienze d’angoscia (pp. 62-63).
Se nell’invettiva contro la perdita di capacità conoscitiva del linguaggio, l’opposizione ordine-disordine si stempera sullo sfondo della contingenza temporale di fine millennio, ossia nel raggio dell’azione umana e della contrapposizione io-società, la dimostrazione per assurdo dell’esattezza attorno al vago di Leopardi spinge l’opposizione ordine-disordine al di là della sfera del controllo umano fino al livello cosmico.
Il doppio significato del termine («la parola “vago” porta con sé un’idea di movimento e mutevolezza, che s’associa in italiano tanto all’incerto e all’indefinito quanto alla grazia, alla piacevolezza» – LA p. 59) fa rimbalzare il ragionamento sulla teoria del piacere implicita nel vago di Leopardi e da qui il passaggio al naufragar m’è dolce va da sé. Aperti gli spazi dell’infinito, la dimensione dell’esattezza si dilata dalla forma alla sostanza. Non è più l’«espressione necessaria», ma il «molteplice», il «formicolante», il «pulviscolare». È il rapporto del singularis con il molteplice, che è tema dell’Infinito, ma anche delle Operette morali che suggellano la figura del vago trasfigurata con Musil e Barthes nella polarità di Mathesis universalis e Mathesis singularis e nella cosmogonia di Eurêka interpretata da Valéry.
La «coscienza cosmica» (I. Calvino, Saggi, I, Mondadori, p. 739), la relazione tra la singolarità dell’io e l’universalis, quella corrispondenza tra cielo e terra che larga considerazione ha avuto nel pensiero arcaico e che nella forma di macrocosmo e microcosmo tanto ha acceso l’immaginario rinascimentale, è una divinità ctonia delle Lezioni, che, paludata in pompa magna, rintanata nelle profondità delle Lezioni o relegata nella lezione ripudiata, è pur sempre venerata. La sfera della dimensione umana, il particolare che essa rappresenta si collega alla molteplicità dell’esistente. Non ci sono accadimenti, non c’è storia umana sottratti alle leggi che regolano il molteplice e le sue sorti: il particolare della dimensione umana fa parte di questo universale. E in questo quadro si precisa, anzi prende un senso l’esattezza. Leopardi che con la teoria del vago doveva essere il contraddittore dell’esattezza, non solo non ne vanifica il memos, ma ne edifica il quadro mitologico.
È sintomatico che l’epistemologia delle Lezioni non scaturisca da filosofie sistematiche, ma o da uomini di cultura scientifica consapevoli delle implicazioni filosofiche delle loro conoscenze o da uomini, se di formazione umanistica, che hanno fatto della scienza la pietra di paragone della loro cultura. E non è un caso se un filo che li accomuna sia rintracciabile in una forma di approccio, in un metodo di
conoscenza in cui ogni ipoteca antropocentrica sia abolita, in cui la storia dell’uomo esca dai suoi limiti, sia vista solo come un anello, lasciandosi inghiottire ai due estremi dalla storia dell’organizzazione della materia, da una parte nella continuità animale [...] e dall’altra nell’estensione alle macchine dell’elaborazione dell’informazione (I. Calvino, Saggi, I, cit., pp. 164-165).
L’uomo è collocato in un molteplice, assieme a tanti altri particolari, come nell’«apocrifo talmudico» del Cantico del gallo silvestre o nel gioco degli scacchi, dove tutte le pedine indipendentemente dal loro valore (fuor di metafora, dal loro livello evolutivo) partecipano allo stesso gioco regolato dalle stesse rigorose leggi.
Nel sistema di Calvino l’uomo è al cospetto dell’universo, come sullo scoglio di Montale, in un arcipelago fatto da tanti altri scogli nella contiguità di tutte le cose. La continuità di tutte le cose è «il punto d’arrivo cui tendeva Ovidio nel raccontare la continuità delle forme, il punto d’arrivo cui tendeva Lucrezio nell’identificarsi con la natura comune a tutte le cose» (I. Calvino, Lezioni americane, cit., p.120). La continuità di tutte le cose è il punto d’arrivo e il punto di partenza di Leopardi (nella continuità di tutte le cose i due punti sono reversibili) che funge da catalizzatore della nozione di particolare e di molteplice di Calvino.
Molteplice e particolare e non parte e tutto:
Ho preferito parlare di particolare e di molteplice, anziché di "parte" e di "tutto", perché "tutto", "totalità" sono parole di cui diffido sempre un poco. Non ci può essere un tutto dato, attuale, presente, ma solo un pulviscolo di possibilità che si aggregano e disgregano (I. Calvino, Saggi, I, cit., p. 1102)
come nel Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco. E ogni particolare è allineato e parificato al cospetto della possibilità di aggregarsi e disgregarsi della materia, al rapporto tra ordine e disordine. Il disordine pestilenziale del linguaggio e delle cose e della vita è solo un aspetto in piccolo di un più generale disordine nel quale la poesia ritaglia delle porzioni d’ordine.
È questo lo sfondo del concetto di esattezza, è l’aggregarsi e il disgregarsi della materia che connota la «condizione cosmica» dell’uomo, parificato nella continuità con tutte le cose. Il risvolto dell’esattezza è il disgregarsi della materia, il nulla. È il nulla, il vuoto che si oppone all’esattezza. In questa opposizione è annidata l’ambivalenza della conferenza, già adombrata nella dedica a Santillana nell’opposizione esattezza-fato, dove pure la condizione umana è posta nella sua dimensione cosmica al cospetto dell’impero della realtà fisica.
Il nulla, il vuoto o se si preferisce, la morte.
È la morte - «la cosa assolutamente sicura» (I. Calvino, Saggi, I, cit., p. 1102) - lo sfondo dell’esattezza. La morte, un altro tema ctonio delle Lezioni, un tema che è sempre lì a due passi, pronto ad uscire. «Ma proprio perché la morte è lì a due passi, tutt’intorno» (p. 1111) tutta la Lezione, tutte le Lezioni, sono dalla parte della vita. Come per quell’«edonista infelice» di Leopardi.
Se non abbiamo seguito sequenzialmente la poetica del vago, se non ne abbiamo accompagnato il movimento in crescendo che lo sfuma nell’indefinito, se abbiamo preferito saggiare qua è là disordinatamente è perché nell’Esattezza il poeta del vago, Leopardi, che Calvino già ci ha fatto apprezzare come poeta della luna, non interviene nella veste di poeta lirico. O meglio la poesia di Leopardi, la leggerezza dei versi di Leopardi, interviene a ordinare lo sfondo del sistema cosmologico di Calvino, perché «la contemplazione del cielo notturno che ispirerà a Leopardi i suoi versi più belli non era solo un motivo lirico; quando parlava della luna Leopardi sapeva esattamente di cosa parlava» (I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 26). Leopardi era poeta lirico, ma anche astronomo e cosmologo dalla «straordinaria erudizione» scientifica. È nella veste di scienziato capace di riflessione filosofica e di trasfigurazione poetica che Leopardi interviene nell’Esattezza a fare da dorsale a un percorso altrimenti rapsodicamente lanciato tra il vago, l’indefinito e il cosmo.
È ancora Leopardi scienziato al cospetto della molteplicità del cosmo e delle sue leggi, Leopardi poeta del dolore di vivere, Leopardi edonista infelice, a fare da contenitore al problema «dell’unico e dell’irripetibile» e al suo rapporto con la molteplicità dell’esistente o del possibile.
Il problema dell’esattezza non si esaurisce nella delineazione di un sistema cosmologico, di un quadro mitologico generale, ma si estende verso la collocazione del sé, dell’unico irripetibile, all’interno di questo sistema che l’esattezza pur delinea.
La necessità di collocare la singolarità irripetibile della persona nel brulicante formicolio delle vite e dell’universo, l’io posto al cospetto delle leggi dell’universo e in primo luogo di fronte al caso, è il quadro dell’esattezza.
La siepe dell’Infinito di Leopardi isola lo scoglio dell’individualità irripetibile del poeta dal resto dell’arcipelago e lo pone al solo cospetto dell’universo, pone lui, Leopardi in un momento ben definito. Le sensazioni di Leopardi per quanto contigue alle altrui sensazioni, sono le sensazioni uniche, irripetibili che Leopardi prova lì, riparato dalla siepe a tu per tu con la vertigine dell’infinito e delle sue leggi in un momento ben definito e irripetibile.
Se si contenta del vago formicolare delle sensazioni dell’indefinito è perché è consapevole, e accetta, che il proprio posto nel mondo non gli consente di contenere l’infinito, non diversamente da Perseo che si tira dietro il fardello di mostri, perché sa che quel fardello è la sua realtà. E se trova piacere nell’illusoria impressione d’illimitato è perché sa e accetta che quel surrogato dell’infinito è quanto le leggi dell’universo consentono alla sua mente.
L’esattezza è stabilire il proprio posto nel mondo accettando la necessità, l’esattezza è stabilire l’armonia con l’universo pur sapendo che, alla fine, «dell’universo con tutte le sue galassie non resterà che un vorticare d’atomi nel vuoto» (I. Calvino, Saggi, cit., I, p. 958). Pur sapendo che, alla fine, è «l’intero universo a spegnersi e a sparire: “un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso”» (I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 67).
L’esattezza sposta il fardello della Medusa dalla terra al cielo. Leopardi poeta del vago traccia le coordinate di un io che nella Consistency avrebbe fatto senz’altro ritorno.
7 Leopardi romantico?
In un primo momento volevo dedicare questa conferenza [Leggerezza] tutta alla luna: seguire le apparizioni della luna nelle letterature d’ogni tempo e paese. Poi ho deciso che la luna andava lasciata tutta a Leopardi ( I. Calvino, Lezioni americane, Garzanti, 1988, p. 24).
Chi ritenesse di incontrarvi la tesi di un Leopardi romantico ha sbagliato strada.
Certo, la luna fa parte dell’armamentario romantico, in particolare di quel romanticismo riciclato fatto di sospiri e vibrazioni d’animo; mentre l’anelito per l’infinito, altro tema caro a Leopardi, è stato il nerbo del romanticismo tedesco.
Ma non per questo, non perché uno parla della luna o dell’infinito sia pure in epoca di romanticismo, deve essere per forza romantico, come del resto non necessariamente uno è credente perché parla di Dio.
Quel dio, che Einstein non riusciva ad ammettere che giocasse a dadi, ha offerto ragioni a quanti, ingenui o interessati, vogliono a tutti i costi conciliare ragione e fede, benché Einstein credesse «nel Dio di Spinoza, che si rivela nell’armonia del creato, ma non in un Dio che si interessa delle fedi e delle azioni dell’uomo. Per me questo è ateismo», sostiene Harold Kroto.
La stessa perentorietà usa Calvino per il presunto romanticismo di Leopardi: Leopardi «non amava i romantici e non leggeva romanzi o racconti».
Giacomo Leopardi a quindici anni scrive una storia dell’astronomia di straordinaria erudizione, in cui tra l’altro compendia le teorie newtoniane. La contemplazione del cielo notturno che ispirerà a Leopardi i suoi versi più belli non era solo un motivo lirico; quando parlava della luna Leopardi sapeva esattamente di cosa parlava (p. 26).Quando parlava della luna o quando parlava dell’infinito.
Il problema che Leopardi affronta è speculativo e metafisico, un problema che domina la storia della filosofia da Parmenide a Descartes a Kant: il rapporto tra l’idea d’infinito come spazio assoluto e tempo assoluto, e la nostra cognizione empirica dello spazio e del tempo. Leopardi parte dunque dal rigore astratto d’un’idea matematica di spazio e di tempo e la confronta con l’indefinito, vago fluttuare delle sensazioni (p. 63).
Una riprova dell'estraneità di Leopardi al romanticismo
è data dal fatto che non abbia mai fatto ricorso al genere letterario
proprio del romanticismo: il romanzo.
Se si segue la genesi del romanzo moderno tracciata
nella Molteplicità attorno alla Leggibilità
del mondo di Blumenberg si capisce perché (Cfr.
A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, pp. 516-553).
Ma anche quando Calvino addita nel Leopardi del Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie l’«iniziatore del fantastico italiano», non lo confonde con il gusto del macabro e del soprannaturale che il romanticismo tedesco stava diffondendo, anche se ne rileva l’affinità con i temi
che torneranno più spesso nella letteratura fantastica del secolo XIX: il tema dello scienziato che sfida le leggi della natura finché una notte la sua audacia non viene messa a dura prova; il tema del mito antico che si rivela veritiero; il tema del mondo soprannaturale che s’apre per un fugace momento e subito si richiude (I. Calvino, Il fantastico nella letteratura italiana, Saggi, p. 1674).
(Cfr. A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, il capitolo “Leopardi iniziatore del fantastico italiano” alle pp. 250 e seguenti).
[1] “Zibaldone” anticamente indicava una vivanda di elementi diversi, come salmagundi.
Nel significato esteso è passato a indicare una mescolanza confusa di cose e persone diverse e quindi quaderno, scartafaccio che raccoglie pensieri, memorie, appunti, riflessioni, abbozzi...
In senso spregiativo zibaldone indica un lavoro caratterizzato da una serie disordinata di elementi privi di filo conduttore.
Voci correlate
La presente pagina fa parte di un ipertesto sulle Lezioni americane di I. Calvino e sulle Metamorfosi di Apuleio.