1 La storia mitica del mondo in 250 favole
Ovidio raccoglie il patrimonio di favole mitologiche, humus del raffinato mondo augusteo, per trasformarlo nella storia mitica del mondo, dal caos primordiale all’apoteosi di Cesare, offrendo in quindici libri una mirabile veste poetica a duecentocinquanta favole di trasformazioni.
Il libro primo: la genesi e il diluvio
Il libro primo prende le mosse dal Caos per arrivare, attraverso la sua divisione nei quattro elementi e all’evoluzione della materia, all'apparizione degli animali e dell'uomo con le quattro età: aurea, argentea, bronzea, ferrea, che hanno visto il passaggio dall'eterna primavera dell'età dell'oro alle quattro stagioni dell'età bronzea, e infine alla precipitazione dell'umanità nelle scelleratezze più nefande, tanto che gli dei, riuniti a concilio decidono lo sterminio degli uomini con un diluvio universale, riservando a Deucalione e Pirra, unici superstiti, il compito di ripopolare la terra.
E qui incomincia il racconto delle metamorfosi che subirono nel tempo molti esseri viventi a cominciare da Dafne, trasformata in alloro per aver disdegnato l'amore di Apollo e dalla ninfa Io, amata da Giove e mutata in giovenca per le gelosie di Giunone...
Il libro XV. Pitagora, le continue trasformazioni della materia, l'apoteosi di Cesare
... E così in un turbinio di metamorfosi di libro in libro fino al quindicesimo dove viene esposta, quasi in contrappunto con Lucrezio, la dottrina di Pitagora che insegnava l'astensione dalla carne degli animali in nome della trasmigrazione ,delle anime dopo la morte in altri corpi sia d'uomo che di bestia.
Con ricchezza di particolari racconta il continuo trasformarsi della materia per concludere con i fenomeni apparsi alla morte di Cesare e con l'apoteosi della sua anima portata dalla madre Venere tra le stelle del firmamento.
La poesia delle Metamorfosi
Le favole sbocciate nelle Metamorfosi sono giunte a noi attraverso una infinità di rivoli, non mancando la loro poesia di ispirare ogni genere di artista e di evocare lontani archetipi del nostro profondo.
2 Una donna s’accorge che sta trasformandosi in giuggiolo (IX, 336–355)
Venerat huc Dryope fatorum nescia, quoque
indignere magis, nymphis latura coronas;
inque sinu puerum, qui nondum impleverat annum,
dulce ferebat onus tepidique ope lactis alebat.
Haud procul a stagno Tyrios imitata colores
in spem bacarum florebat aquatica lotos.
Carpserat hinc Dryope, quos oblectamina nato
porrigeret, flores, et idem factura videbar
(namque aderam): vidi guttas e flore cruentas
decidere et tremulo ramos horrore moveri.
Scilicet, ut referunt tardi nunc denique agrestes,
Lotis in hanc nymphe, fugiens obscena Priapi,
contulerat versos servato nomine, vultus.
Nescierat soror hoc. Quae cum perterrita retro
ire et adoratis vellet discedere nymphis,
haeserunt radice pedes. Convellere pugnat,
nec quicquam nisi summa movet. Subcrescit ab imo
totaque paulatim lentus premit inguina cortex.
Ut vidit, conata manu laniare capillos,
fronde manum implevit: frondes caput omne tenebant.
3 O quando racconta delle dita di Aracne (VI, 129–145)
possit opus: doluit successu flava virago
et rupit pictas, caelestia crimina, vestes,
utque Cytoriaco radium de monte tenebat,
ter quater Idmoniae frontem percussit Arachnes.
non tulit infelix laqueoque animosa ligavit
guttura: pendentem Pallas miserata levavit
atque ita «vive quidem, pende tamen, inproba» dixit,
«lexque eadem poenae, ne sis secura futuri,
dicta tuo generi serisque nepotibus esto!»
post ea discedens sucis Hecateidos herbae
sparsit: et extemplo tristi medicamine tactae
defluxere comae, cum quis et naris et aures,
fitque caput minimum; toto quoque corpore parva est:
in latere exiles digiti pro cruribus haerent,
cetera venter habet, de quo tamen illa remittit
stamen et antiquas exercet aranea telas.
4 I contadini trasformati in rane (VI, 337-381)
Hinc quoque Iunonem fugisse puerpera ferturinque suo portasse sinu, duo numina, natos.
Iamque Chimaeriferae, cum sol gravis ureret arva,
finibus in Lyciae longo dea fessa labore
sidereo siccata sitim collegit ab aestu,
uberaque ebiberant avidi lactantia nati.
Forte lacum mediocris aquae prospexit in imis
vallibus; agrestes illic fruticosa legebant
vimina cum iuncis gratamque paludibus ulvam;
accessit positoque genu Titania terram
pressit, ut hauriret gelidos potura liquores.
rustica turba vetat; dea sic adfata vetantis:
«Quid prohibetis aquis? usus communis aquarum est.
nec solem proprium natura nec aera fecit
nec tenues undas: ad publica munera veni;
quae tamen ut detis, supplex peto. non ego nostros
abluere hic artus lassataque membra parabam,
sed relevare sitim. caret os umore loquentis,
et fauces arent, vixque est via vocis in illis.
haustus aquae mihi nectar erit, vitamque fatebor
accepisse simul: vitam dederitis in unda.
hi quoque vos moveant, qui nostro bracchia tendunt
parva sinu,» et casu tendebant bracchia nati.
Quem non blanda deae potuissent verba movere?
hi tamen orantem perstant prohibere minasque,
ni procul abscedat, conviciaque insuper addunt.
Nec satis est, ipsos etiam pedibusque manuque
turbavere lacus imoque e gurgite mollem
huc illuc limum saltu movere maligno.
Distulit ira sitim; neque enim iam filia Coei
supplicat indignis nec dicere sustinet ultra
verba minora dea tollensque ad sidera palmas
«aeternum stagno» dixit «vivatis in isto!»
eveniunt optata deae: iuvat esse sub undis
et modo tota cava submergere membra palude,
nunc proferre caput, summo modo gurgite nare,
saepe super ripam stagni consistere, saepe
in gelidos resilire lacus, sed nunc quoque turpes
litibus exercent linguas pulsoque pudore,
quamvis sint sub aqua, sub aqua maledicere temptant.
Vox quoque iam rauca est, inflataque colla tumescunt,
ipsaque dilatant patulos convicia rictus;
terga caput tangunt, colla intercepta videntur,
spina viret, venter, pars maxima corporis, albet,
limosoque novae saliunt in gurgite ranae».
5 Un Pitagora che somiglia molto a Budda
Nel libro XV per 419 versi (60-471), come in gara con Lucrezio, Ovidio espone la dottrina di Pitagora, che, dice Calvino, trova analogie con Budda.
6 Non era forse questo il punto d’arrivo cui tendeva Ovidio nel raccontare la continuità delle forme, il punto d’arrivo cui tendeva Lucrezio nell’identificarsi con la natura comune a tutte le cose?
Riportiamo un brano di Consistenza. L'inesplorata sesta lezione di Calvino.
La terra di nessuno tracciata tra Molteplicità e Consistency non è pertanto la sortita poetica di un imbonitore, ma è il quadro di riferimento delle suddette cosmologie:
[...] magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica...
Non era forse questo il punto d’arrivo cui tendeva Ovidio nel raccontare la continuità delle forme, il punto d’arrivo cui tendeva Lucrezio nell’identificarsi con la natura comune a tutte le cose (LA, p.120)?
Queste poche battute dalla rapidità dell’epigramma («sogno immense cosmologie, saghe ed epopee racchiuse nelle dimensioni d’un epigramma»; LA, p. 50) rifondano il modo di guardare il mondo. Sono una cosmologia che celebra una nuova alleanza tra l’uomo e le cose (o rilancia il testimone di una “antica alleanza”, passato di mano in mano attraverso fili nascosti?). Non a caso da queste parti girano Lucrezio e Ovidio tirati a festa. La loro cadenza scandisce il presupposto filosofico di quella che a prima battuta potrebbe essere liquidata per una boutade travestita di poesia.
Il loro arcano è indice della delicatezza del passaggio: Lucrezio e Ovidio sono la sostanza ultima delle Lezioni. Il loro atomismo[1] certifica che anche la natura evanescente dell’io è fatta della stessa sostanza delle cose. Non è un convincimento improvvisato. Stava annidato in un loop della Leggerezza:
Anche per Ovidio la conoscenza del mondo è dissoluzione della compattezza del mondo; anche per Ovidio c’è una parità essenziale tra tutto ciò che esiste, contro ogni gerarchia di poteri e di valori. Se il mondo di Lucrezio è fatto d’atomi inalterabili, quello d’Ovidio è fatto di qualità, d’attributi, di forme che definiscono la diversità ma questi non sono che tenui involucri d’una sostanza comune che, – se agitata da profonda passione – può trasformarsi in quel che vi è di più diverso (LA, p. 11).
Sostanza comune significa che tutto è fatto della stessa pasta, anche l’uomo e la sua mente.
Quando si parla di parificazione alle cose, la mente umana si esibisce in una delle sue performance mitopoietiche più riuscite. Da qualunque parte rigiri la questione, anche con gli afflati più parificanti, alla fin fine finisce con il piazzare sul ramo più alto se stessa, ossia l’uomo, un uomo che in fondo non va molto più in là della proiezione del proprio io.
Del resto anche quando riconosciamo alle usanze altrui la stessa dignità delle nostre non ci asteniamo di vederle stravaganti o strane, così come rimpiangiamo le gran virtù dei cavalieri antiqui o prefiguriamo la catastrofe dopo di noi. Non dobbiamo sorprenderci. Sono proiezioni di quello stesso software che regola anche l’immagine dell’orizzonte. Uno può anche essere consapevole che è distillata dal suo occhio, ma ciò non gli impedisce di continuare a vederla e di vederla tonda. Non c’è da preoccuparsi più di tanto: è naturale.
Quel che rammarica non è quindi ilporsi sul ramo più alto e disegnarci d’attorno il mondo, ma la sistematica distrazione della continuità. Il ramo più alto su cui ci poniamo si erge sopra il vuoto. Sta su per intrinseca virtù, come se le sue fibre non fossero confuse nelle fibre degli altri rami e la linfa che lo tiene vivo lassù e che gli permette le speculazioni più pindariche non giungesse dalle stesse radici, attraverso vene comuni.
Forse solo nei reparti ospedalieri si matura una diversa consapevolezza. Ti rovesciano come un guanto, non discriminano tra il sopra e il sotto, tra l’alto e il basso. Lì ti fanno percepire la continuità, lì ti accorgi che i tuoi desideri, le tue voglie, il tuo libero arbitrio pendono dal tuo star bene e che questo a sua volta è appeso alle cose: piccole, evanescenti, impalpabili, ma pur sempre cose, pur sempre materia, come pochi milligrammi di un tal acido piuttosto di un talaltro o quel filo di gas che dopo un intervento rende così soddisfatto il chirurgo quando confessi d'averlo traslocato...
Ti accorgi tu, degente, nuovo a tante “stranezze”, di quanto il nostro io sia legato alle cose, ma per gli operatori, protetti dalla cortina esoterica del linguaggio specialistico, è routine e la routine, si sa, è tale quando assopisce la coscienza. Al resto ci pensa il cappellano d'ordinanza con santini e sistro trasformato in cassetta per le elemosine. Ti liberi come da un brutto sogno e torni ad appollaiarti sul ramo più alto.
Continuità tra le cose, parificazione vuol dire riconoscere in noi la presenza della materia, vuol dire rendersi conto che alla chiusura dei manicomi hanno contribuito gli psicofarmaci, che per la liberazione sessuale ci è voluta la pillola e se l’epilettico non è più, o quasi più, esorcizzato è per gli antiepilettici.
Significa essere consapevoli che la giurisdizione divina è inversamente proporzionale alla conoscenza delle cose, di tante piccole cose. Significa rendersi conto che il nostro rapporto con l’essere è legato al vocabolario di tante piccole cose impalpabili. «Non si pensa che un po’ di zucchero in più conti nell’armonia della natura» (IC 1979b, p. 1127), né che la paura possa essere legata a un gene.
Non è necessario scoperchiare il vespaio dell’ingegneria genetica. Un “banale” ormone sintetico – cos’è oggi un ormone sintetico al cospetto dell’ingegneria genetica? – come quello della crescita, che non scuote più i labirinti nemmeno ai moralisti di mestiere, ha cancellato un'intera categoria di “segnati da Dio”.
Continuità vuol dire cogliere l’anello che unisce il nostro molare che si modella sull’antagonista, al tarassaco che piega il palco floreale per sottrarre la sua progenie al genio pareggiante del tosaerba.
Continuità vuol dire che puoi anche appollaiarti sul ramo più alto, ma senza dimenticarti che questo è sorretto da altri rami e senza farti illusioni di poter spiccare da lì qualsiasi volo, perché i voli poco hanno a che fare con la ragione ossia quella prerogativa con cui legittimi il tuo appollaiarti lassù.
Continuità vuol dire essere consapevoli che il software della mente dipende dalla configurazione del ferrigno hardware e che l’hardware si compone degli stessi elementi semplici che compongono altri hardware.
Per dar voce all’uccello alla plastica o al cemento occorre imparare a scomporre il mondo nei suoi numeri primi e a rinunciare a spiegarlo da sopra, come se noi fossimo di un altro mondo.
Il dar voce all’uccello, all’albero, alla plastica non è una boutade imbonitrice, ma la coerente conseguenza di un convincimento profondo, maturato già nei pressi dei nidi di ragno (A. Piacentini, Consistenza. L'inesplorata sesta lezione di Calvino, pp. 47-50).
[1] È Lucrezio noto per l'atomismo, non Ovidio, ma con un corto-circuito Calvino coopta anche Ovidio. Cfr. Tra il cristallo e la fiamma, Ovidio atomista alle pp. 45 e sgg.
Voci correlate
La presente pagina fa parte di un ipertesto sulle Lezioni americane di I. Calvino e sulle Metamorfosi di Apuleio.