La teoria degli umori
Il sistema dei quattro umori
si può spiegare solo attraverso la combinazione di tre principi antichissimi (e, almeno in parte, specificamente greci):
1) la ricerca di elementi o caratteristiche primarie semplici alle quali potesse ricondursi la struttura complessa e apparentemente irrazionale sia del macrocosmo sia del microcosmo;
2) l’esigenza di trovare un’espressione numerica per questa struttura complessa dell’esistenza corporea e spirituale;
3) la teoria dell’armonia, della simmetria, dell’isonomia,[1] o qualunque altro nome gli uomini abbiano scelto per indicare quella perfetta proporzione nelle parti, nei materiali, nelle facoltà, che il pensiero greco fino a Plotino ha sempre considerato essenziale a ogni valore, morale, estetico o igienico.
Nel cercare di individuare l’origine della dottrina umorale dobbiamo allora risalire ai pitagorici, non solo in generale perché il culto del numero ha toccato la sua più alta espressione nella filosofia pitagorica, ma più in particolare perché i pitagorici consideravano il numero quattro come altamente significativo. Essi erano soliti giurare sul quattro, “che contiene la radice e la sorgente dell’eterna natura”; e non solo la natura in generale, ma l’uomo razionale in particolare sembrava loro governato da quattro principi, situati rispettivamente nel cervello, nel cuore, nell’ombelico e nel fallo.[2] Perfino l’anima fu più tardi concepita come quadruplice, cioè comprendente l’intelletto, l’intelligenza, l’opinione e la percezione.
I pitagorici non elaborano essi stessi una dottrina dei quattro umori, però prepararono ad essa il terreno postulando una serie di categorie tetradiche[3] (come, ad esempio, quelle già ricordate; oppure quella di terra, aria, fuoco e acqua; oppure quella di primavera, estate, autunno e inverno). In questo sistema, una volta sviluppato, i quattro umori poterono essere agevolmente collocati. Soprattutto essi definirono la salute come l’equilibrio di diverse qualità, e la malattia come il predominio di una sola: un concetto che sarà decisivo per la dottrina umorale vera e propria.
(Klibansky, Panofsky, Saxl, Saturno e la melanconia, pp. 8-9)
[1] Nome uguale; da iso (uguale).
[2] Nella simbologia di molte religioni primitive il fallo è l’emblema del principio universale della fecondità ed oggetto di culto. L’impiego odierno di paracarri, nella delimitazione di luoghi riservati ad uso particolare (sagrati, isole pedonali, monumenti...) riecheggia l’antica abitudine di erigere nei luoghi sacri falli realizzati in tronchi d’albero o in pietra.
Culti fallici sono celebrati ancora oggi in molti Paesi, anche industrializzati come ad esempio il Giappone.
[3] In numero di quattro; da tetra (quattro).
Voci correlate
La presente pagina fa parte di un ipertesto sulle Lezioni americane di I. Calvino e sulle Metamorfosi di Apuleio.