1 Le funzioni del furfante, del buffone e dello sciocco
1.1 La posizione dell’autore
La posizione dell’autore rispetto al materiale ossia «il punto di vista necessario per organizzare il materiale» (M. Bachtin, Estetica e romanzo. Un contributo fondamentale alla «scienza della letteratura», trad. it. Clara Strada Janovič, Einaudi, 1979, p. 307) è un problema specifico della prosa romanzesca. Il romanzo e gli altri generi di prosa affine non implicano come i generi epici, lirici e drammatici una posizione creativa immanente al genere stesso, codificata da una tradizione filosofica e culturale. Del resto l’affermazione della prosa romanzesca si è giocata proprio sulla versatilità di un genere sciolto da canoni vincolanti.
L’assoluta libertà della prosa artistica rispetto ai materiali (un diario, un dossier, un fascio di lettere... qualsiasi materiale può diventare romanzo), la discrezionalità dell’impianto strutturale e la malleabilità delle categorie spazio-temporali, permettono una estrema varietà di maniere stilistiche, in buona parte affidate alla posizione dell’autore rispetto ai materiali. Si badi bene non il presupposto teorico — il punto di vista dell’autore rispetto alla teoria del romanzo che orienta la scelta stilistica — ma la posizione di quella strategia narrativa immanente alla narrazione che Eco chiama Autore modello e che non è semplicemente identificabile nel narratore.
Per una strategia narrativa orientata da un sistema di valori assiomatico e da una concezione stilizzante della lingua il problema del punto di vista è di scarsa rilevanza in quanto la riconduzione della lingua a un sistema ideologico-verbale unitario implica la parola diretta d’autore come forma stilistica ordinatrice ed una eventuale «varietà di maniere stilistiche» (p. 180) verrebbe comunque risucchiata sullo stesso piano delle intenzioni dirette d’autore (p. 181). La soluzione stilistica in questo caso è implicita come nei generi lirici, epici e drammatici.
Il punto di vista assume rilevanza quando la strategia narrativa intende sottrarsi alle angustie predicatorie e patetiche della parola diretta e vuol interporre tra sé e i materiali quella distanza che consenta libertà di movimento ed agilità; oppure quando alla compattezza di un impianto totalizzante l’autore oppone la struttura puntiforme della rete di connessioni «tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo» (I. Calvino, Lezioni americane, Garzanti, 1988, p. 103) senza esporre direttamente la sua parola, disseminata piuttosto in un’analoga struttura dai mille rimandi rifrangenti.
1.2 Lo scudo di Perseo
L’impiego dell’immagine riflessa, come nello scudo di Perseo, può diventare allora una soluzione stilistica appropriata (a meno che l’autore non intenda esibire gli stessi meccanismi narrativi). L’autore non accede direttamente alla realtà ma la aggira attraverso un osservatorio interposto che per suo statuto gode di specifici privilegi e immunità. Il Pin dei Sentieri dei nidi di ragno e il Nipote del Visconte dimezzato non sono una semplice voce narrante, ma una strategia narrativa che compie atti e registra accadimenti dei quali non coglie il senso e proprio in ragione di ciò può accedervi ed esserne testimone. (Il bambino che non capisce non crea imbarazzo, passa inosservato e; può, come una candid camera, registrare non visto).
L’autore si è costruito una maschera che giustifica in modo del tutto piano la sua contemplazione dei fatti, anche dell’altrui vita privata.
Per di più lo statuto della non comprensione consente quel tanto di distacco dalla materia narrata da poter introdurre senza dissonanze la funzione dello smascheramento (delle convenzioni sociali, dei sistemi ideologici, delle convinzioni).
L’ottica distanziante di una monaca di clausura che nel Cavaliere inesistente racconta dei cavalieri di Re Carlo o la prospettiva deformante del romanzo filosofico adottata fatta propria dal cadetto scapestrato del Barone rampante riparato sugli alberi, consentono di svolgere lo smascheramento della vita, sfuggendo ai toni ampollosi della parola predicatoria o moralistica.
Lo scudo di Perseo si rivela polifunzionale: vale per la realtà, ma anche per la sua raffigurazione.
1.3 La terza persona
Lo «statuto del protagonista come "terza persona" nella vita d’ogni giorno che gli permette di spiare e origliare» (p. 272) è fissata in molteplici varianti da una tradizione che risale alla metamorfosi dell’Asino d’oro di Apuleio.
Finché la letteratura rispecchiava la vita e l’uomo nella dimensione del cittadino — nella dimensione sociale dell’agorà — era esente da questo problema.
«Ma quando l’uomo privato e la vita privata entrarono nella letteratura (nell’epoca dell’ellenismo), questi problemi dovevano porsi inevitabilmente. Sorse la contraddizione tra il carattere pubblico della forma letteraria e il carattere privato del suo contenuto. Cominciò il processo di elaborazione dei generi letterari privati. Processo che nell’antichità restò incompiuto» (p. 271).
La vita privata, per sua natura squisitamente chiusa, può essere svelata «spiando e origliando» «“come vivono gli altri”» dalla posizione di Lucio-asino oppure come nel romanzo greco attraverso «le forme dell’investigazione e dell’inchiesta» giudiziaria o dell’autosvelamento del diario, della confessione, della lettera. Ma l’applicazione delle forme retorico-pubbliche e del cronotopo greco d’avventura al «contenuto della vita privata» sposta la raffigurazione su un piano di estrema astrattezza.
Per una raffigurazione dell’insieme dei «segreti quotidiani della vita privata che mettono a nudo la natura dell’uomo» diventa allora particolarmente felice la posizione di Lucio-asino.
«Essa fu quindi fissata dalla tradizione e in molteplici variazioni la incontriamo nella successiva storia del romanzo. Della metamorfosi asinina si conserva appunto lo specifico statuto del protagonista come “terza persona” nella vita d’ogni giorno, statuto che gli permette di spiare e origliare» (p. 272).
Tale è lo statuto dell’avventuriero, del furfante e del servo che nel romanzo picaresco si sostituiscono all’asino. E anche quando queste figure passano in secondo piano mantengono il loro significato (vedi Jacques di Diderot).
Una funzione analoga è svolta «dalla prostituta e dalla cortigiana» (ad esempio, Moll Flanders e Lady Roxana di De Foe) e dal parvenu (Il capitano Singleton e Il colonnello Jack di De Foe). Le figure si possono sovrapporre come nel nipote di Rameau che condensa tutta la specificità della posizione dell’asino.
1.4 Il furfante, il buffone e lo sciocco
Tra le figure della terza persona il furfante, il buffone e lo sciocco hanno assunto un rilievo essenziale nello sviluppo della posizione dell’autore quando dopo il Medioevo «uno dei compiti fondamentali del romanzo diventa lo smascheramento di ogni convenzionalità, della falsa, cattiva convenzionalità di tutti i rapporti umani» (p. 309).
Il romanziere ha bisogno di una consistente maschera formale, legata al genere, che determini sia la sua posizione in quanto vede la vita, sia la sua posizione in quanto rende pubblica questa vita.
Ed ecco che qui le maschere del buffone e dello sciocco, naturalmente in vario modo trasformate, vengono in aiuto al romanziere. Queste maschere non sono inventate, hanno profondissime radici popolari, sono legate al popolo dai privilegi consacrati della estraneità del buffone alla vita e della immunità della parola buffonesca, sono legate al cronotopo della piazza e al palcoscenico teatrale (p. 308).
«Tutto ciò che essi fanno e dicono, ha un significato non diretto e immediato, ma metaforico, a volte inverso, e non li si può intendere alla lettera in quanto non sono ciò che sembrano» (p. 306). La loro esistenza è legata al ruolo di smascheramento che rivestono e fuori di questo ruolo non esistono.
«Tutto ciò per il genere romanzesco è di straordinaria importanza. È trovata la forma della esistenza dell’uomo che partecipa alla vita passivamente, guardandola e riflettendola in eterno, e sono trovate le forme specifiche per riflettere la vita, mettendola alla luce del giorno. (Per di più il render pubbliche anche le sfere specificamente non pubbliche della vita, quella sessuale, ad esempio, costituisce la funzione antichissima del buffone)» (p. 308).
Su questo piano avviene l’incontro del romanziere con la tradizione serio-comica dei fabliaux, degli Schwanken, dei cicli satirici parodici che contrappongono all’iprocrisia del regime feudale - che nasconde «le sane funzioni “naturali” della natura umana», - «l’intelligenza lucida, allegra e astuta del furfante (sotto forma di villano, di piccolo apprendista cittadino, di giovane clerico vagante e in generale di vagabondo declassato), i dileggi parodici del buffone e la bonaria incomprensione dello sciocco» (p. 309).
Nel romanzo picaresco, nel Don Chisciotte, in Quevedo, in Rabelais, nella satira umanistica di Erasmo, in Grimmelshausen, in Sorel, in Scarron, in Le Sage, in Marivaux, in Voltaire, in Fielding, in Smollet, in Swift queste maschere ritornano variamente proposte.
Ma «anche l’uomo interiore - la pura soggettività “naturale”» per cui «non si era potuto trovare una forma di vita adeguata e diretta» trova confacente al suo svelamento le maschere del buffone e dello sciocco.
L’immagine dello strambo, è «destinata a svolgere un ruolo importantissimo nella vita del romanzo: in Sterne, Goldsmith, Hippel, Jean Paul, Dickens, ecc. La stramberia specifica, lo “shandysmo” (il termine è dello stesso Sterne) diventa una forma importante della rivelazione dell’“uomo interiore", della "soggettività libera e autosufficiente", una forma analoga al “pantagruelismo”, il quale permise lo svelamento dell’uomo esterno integro nel Rinascimento».
2 La parola diretta d’autore: la parola patetica
Su un piano diametralmente opposto allo scudo della «terza persona», (il «narratore di secondo livello» di Auerbach), agisce la parola diretta d’autore quel modo di narrare diretto, anche attraverso la mediazione del narratore, in cui il romanziere opera con una sua lingua unitaria e non pone alcun distanziamento tra sé e il materiale.
Anche in questo caso la pluridiscorsività non viene completamente disattesa, nel senso che pur essendo esclusa dal corpo stilistico resta sullo sfondo come elemento a cui l’autore oppone il suo modello linguistico-ideologico unitario.
La pluridiscorsività nel romanzo è qualcosa con cui fare i conti in ogni caso, qualcosa con cui l’autore implicitamente polemizza pur senza portarla allo scoperto. Del resto la prosa romanzesca non può prescindere in ogni caso dalla parola altrui e dalla resistenza della parola altrui; la parola nel romanzo è in qualche modo sempre dialogante.
Il romanziere non conosce una lingua unica, unitaria, ingenuamente (o convenzionalmente) indiscutibile e perentoria. Egli la riceve già stratificata e pluridiscorsiva. Perciò, anche là dove la pluridiscorsività resta fuori del romanzo, dove il romanziere opera con la sua lingua unitaria e totalmente affermata (senza distanza, senza rifrazione, senza riserve), egli sa che essa non è universale e indiscutibile, sa che essa risuona tra la pluridiscorsività, sa che essa va salvaguardata, purificata, difesa, motivata. Perciò anche la lingua unitaria e diretta del romanzo è polemica e apologetica, cioè dialogicamente correlata alla pluridiscorsività. Ciò determina l’orientamento particolare - contestabile, contestato e contestante - della parola nel romanzo, parola che non può dimenticare o ignorare né ingenuamente né convenzionalmente la circostante pluridiscorsività (M. Bachtin, Estetica e romanzo, p. 140).
Quando l’opposizione alla pluridiscorsività sente di continuo la resistenza della parola e del punto di vista altrui e lascia prevalere il pathos della giustificazione (autogiustificazione) e dell’accusa, allora la parola diretta assume la forma definita da Bachtin della parola patetica.
È la parola specifica del romanzo barocco e «dovunque è penetrato il suo influsso e si sono mantenute le sue tradizioni, cioè principalmente nel romanzo di prove (e nei suoi elementi del tipo misto)» (p. 201) «la massa verbale fondamentale del romanzo si trova su un solo piano» e «per tutto ciò che è essenziale, tra il protagonista e l’autore non c’è distanza» (pp. 201 e 203).
Il patetismo romanzesco restaura sempre nel romanzo qualche altro genere che nella sua forma diretta e pura ha già perso il suo terreno reale. La parola patetica nel romanzo è quasi sempre il surrogato di un genere ormai inaccessibile a un dato tempo e a una data forza sociale: è la parola del predicatore senza pulpito, del giudice severo senza potere giudiziario e punitivo, del profeta senza missione, del politico senza potere politico, del credente senza chiesa, ecc.: sempre la parola patetica è legata a orientamenti e posizioni che sono inaccessibili all’autore in tutta la loro serietà e coerenza, ma che nello stesso tempo egli deve convenzionalmente riprodurre con la propria parola. Tutte le forme e i mezzi patetici della lingua - lessicali, sintattici e compositivi - si sono fusi con questi determinati orientamenti e posizioni, tutti servono a una forza organizzatrice e implicano per il parlante una delegazione sociale determinata e organizzata. Non c’è lingua per il pathos puramente individuale della persona che scrive un romanzo: egli, senza volerlo, deve salire sul pulpito, assumere la posa del predicatore, del giudice, ecc. Non c’è pathos senza minacce, maledizioni, promesse, benedizioni, ecc. Nel discorso patetico non si può fare un passo, senza arrogarsi il titolo di una forza, di un rango, di una posizione, ecc. In ciò sta la "maledizione" della parola patetica diretta nel romanzo. Per questo appunto il vero pathos nel romanzo (e in generale nella letteratura) teme la parola patetica diretta e non si stacca dall’oggetto. La parola patetica e le sue immagini sono nate e si sono formate in un’immagine di lontananza e sono organicamente legate alla categoria gerarchico-assiologica del passato. Nella zona familiare del contatto con l’incompiuto presente non c’è posto per queste forme di pathos, che inevitabilmente distrugge la zona del contatto (pp. 202-203).
(Naturalmente non si tratta qui del «pathos della raffigurazione, del pathos puramente oggettuale, che è artistico e non ha bisogno di una specifica convenzionalità»).
3 La pluridiscorsività
3.1 Discorso diretto, indiretto, indiretto libero
La strategia narrativa rispetto ai materiali, riassumibile nella formula del chi racconta, non esaurisce il discorso riguardo il punto di vista che si estende anche nella direzione del chi vede o del chi parla ossia a chi appartiene il giudizio o l’opinione o il pensiero esplicitati.
Indipendentemente dalla strutturazione del materiale organizzato da un narratore interno o da uno esterno, nella prosa romanzesca risuona una pluralità di voci e di punti di vista, espressi per lo più nelle forme del discorso diretto e del discorso indiretto.
Il primo riferisce integralmente e tra virgolette le parole altrui, conservandone o meno la coloritura stilistica, ma in ogni caso raggiungendo l’effetto dell’immediatezza e naturalezza proprie del parlare in modo diretto. Il secondo riporta indirettamente il pensiero altrui nel discorso del narratore, spegne la vivacità del discorso ma non spezza la narrazione.
Discorso diretto e discorso indiretto sono le classiche forme di introduzione del discorso altrui, le più praticate, alle quali nel romanzo moderno, se n’è aggiunta un’altra più dissimulata, che consente alla voce narrante di esprimere, mimetizzate nella sua, altrui parole. Si tratta dello stile indiretto libero, che introduce il discorso altrui in modo diretto, privo dei connotati formali, mantenendone l’immediatezza senza spezzare la continuità della narrazione.
L’indubbio vantaggio di sommare i pregi dei due stili annullandone gli inconvenienti, non esaurisce tuttavia la potenzialità di uno strumento stilistico, assai efficace nell’aprire la narrazione alle combinazioni dell’orchestrazione polifonica e al gioco deformante dell’umorismo, dell’ironia, della satira.
La dissimulazione e la disseminazione (i concetti sono di Bachtin) del discorso altrui nella sua parola, consentono al narratore di saltellare da un punto di vista all’altro con estrema immediatezza e scioltezza, di accendere più voci contemporaneamente, di animare la pluridiscorsività della narrazione polifonica.
Inoltre la possibilità di graduare la posizione del narratore, di modificarne la distanza dai materiali ad ogni giro di frase, di accendere attraverso l’interazione delle voci, sfumature e contorni che ridimensionano e ridefiniscono i singoli atteggiamenti, consentono un’agevole gestione della funzione smascheratoria della parodia, dell’ironia, della satira.
Lo stile indiretto libero può essere applicato a un intero romanzo, può apparire a tratti o soltanto in pochi punti, indipendentemente dall’impiego degli stili diretto e indiretto. In taluni casi, come nei Malavoglia, svolge una funzione determinante nel costruire l’effetto pluriprospettico con cui l’autore smaschera il cinismo utilitaristico del coro di Trezza.
Proviamo a vederne alcuni passi per esemplificare l’impiego del discorso indiretto libero, rifacendoci alla terminologia di Bachtin (Cfr. M. Bachtin, Estetica e romanzo, p. 108 e sgg.).
3.2 Un esempio di discorso indiretto libero: lo zio Crocifisso dai Malavoglia
Il peggio era che i lupini li avevano presi a credenza, e lo zio Crocifisso non si contentava di «buone parole e mele fradicie», per questo lo chiamavano Campana di legno, perché non ci sentiva da quell’orecchio, quando lo volevano pagare con delle chiacchiere, e’ diceva che «alla credenza ci si pensa». Egli era un buon diavolaccio, e viveva imprestando agli amici, non faceva altro mestiere, che per questo stava in piazza tutto il giorno, colle mani nelle tasche, o addossato al muro della chiesa, con quel giubbone tutto lacero che non gli avreste dato un baiocco; ma aveva denari sin che ne volevano, e se qualcheduno andava a chiedergli dodici tarì glieli prestava subito, col pegno, perché «chi fa credenza senza pegno, perde l’amico, la roba e l’ingegno» a patto di averli restituiti la domenica, d’argento e colle colonne, che ci era un carlino di più, com’era giusto, perché «coll’interesse non c’è amicizia». Comprava anche la pesca tutta in una volta, con ribasso, quando il povero diavolo che l’aveva fatta aveva bisogno subito di denari, ma dovevano pesargliela colle sue bilancie, le quali erano false come Giuda, dicevano quelli che non erano mai contenti, ed hanno un braccio lungo e l’altro corto, come San Francesco; e anticipava anche la spesa per la ciurma, se volevano, e prendeva soltanto il denaro anticipato, e un rotolo di pane a testa, e mezzo quartuccio di vino, e non voleva altro, ché era cristiano e di quel che faceva in questo mondo avrebbe dovuto dar conto a Dio. Insomma era la provvidenza per quelli che erano in angustie, e aveva anche inventato cento modi di render servigio al prossimo, e senza essere uomo di mare aveva barche, e attrezzi, e ogni cosa, per quelli che non ne avevano, e li prestava, contentandosi di prendere un terzo della pesca, più la parte della barca, che contava come un uomo della ciurma, e quella degli attrezzi, se volevano prestati anche gli attrezzi, e finiva che la barca si mangiava tutto il guadagno, tanto che la chiamavano barca del diavolo - e quando gli dicevano perché non ci andasse lui a rischiar la pelle come tutti gli altri, che si pappava il meglio della pesca senza pericolo, rispondeva: - Bravo! e se in mare mi capita una disgrazia, Dio liberi, che ci lascio le ossa, chi me li fa gli affari miei? - Egli badava agli affari suoi, ed avrebbe prestato anche la camicia; ma poi voleva essere pagato, senza tanti cristi; ed era inutile stargli a contare ragioni, perché era sordo, e per di più era scarso di cervello, e non sapeva dir altro che «Quel che è di patto non è d’inganno», oppure «Al giorno che promise si conosce il buon pagatore».
Il ritratto dello zio Crocifisso è una preziosa perla che consente di esemplificare ampiamente l’impiego del discorso diretto, dell’indiretto e dell’indiretto libero, il loro intreccio nelle varie sfumature compresa la «costruzione ibrida»[1] di cui parla Bachtin.
Sulla voce del narratore, un narratore ricordiamo particolare in quanto alterna e somma le caratteristiche della focalizzazione interna ed esterna, appaiono evidenti gli innesti del discorso diretto di zio Crocifisso (marcati dai segnali formali delle virgolette) che interviene con distaccate espressioni proverbiali («buone parole e mele fradicie», «alla credenza ci si pensa»,«chi fa credenza senza pegno, perde l’amico, la roba e l’ingegno», «Quel che è di patto non è d’inganno», «Al giorno che promise si conosce il buon pagatore») e con una espressione diciamo di ‘proprio pugno’, sanguigna, introdotta dal segno formale della lineetta ( – Bravo! e se in mare mi capita una disgrazia, Dio liberi, che ci lascio le ossa, chi me li fa gli affari miei? –).
Che le espressioni proverbiali risuonino sulla bocca di zio Crocifisso – e per eludere le richieste di dilazione, appare evidente, tanto più che alcune sono introdotte da verbi dichiarativi (e’ diceva, non sapeva dir altro) che gliele attribuiscono inconfondibilmente. (Da notare la particolarità stilistica delle espressioni dirette, rese nella modalità del discorso indiretto, cioè senza interpunzione, né interruzione del discorso).
D’altra parte è da rilevare la bivocità di tali espressioni che sulla bocca di zio Crocifisso ne giustificano l’intransigenza, ma l’appartenenza al campo semantico folclorico attribuisce all’intransigenza una risonanza neutra, oggettiva, che sfuma la visione soggettiva dello strozzino sul piano ineluttabile del tempo folclorico.
Altrettanto immediate appaiono alcune riprese indirette libere del discorso di zio Crocifisso disseminate nella parola del narratore («prendeva soltanto il denaro anticipato, e un rotolo di pane a testa, e mezzo quartuccio di vino, e non voleva altro, ché era cristiano e di quel che faceva in questo mondo avrebbe dovuto dar conto a Dio»; «contentandosi di prendere un terzo della pesca, più la parte della barca») marcate in particolare dal soltanto, dal quartuccio, dal non voleva altro, dal contentandosi, che risuonano come autogiustificativi in bocca allo strozzino, ma ironici sulla bocca del narratore; come risuona insieme blasfemo e ironico il richiamo alla giustizia divina (dar conto a Dio), a seconda che lo vogliamo dello strozzino o del narratore.
Come si vede l’impiego della costruzione ibrida e della parola bivoca, la parola appartenente a due orizzonti, è ampiamente praticato, ma possiamo incontrare parole che intersecano anche più di due prospettive.
«Egli era un buon diavolaccio, e viveva imprestando agli amici, non faceva altro mestiere, che per questo stava in piazza tutto il giorno, colle mani nelle tasche, o addossato al muro della chiesa, con quel giubbone tutto lacero che non gli avreste dato un baiocco».
Qui la costruzione ibrida raggiunge risultati eccelsi quanto a pluridiscorsività e a sovrapposizione di percorsi. Almeno quattro voci si alternano e si intersecano: il narratore, lo zio Crocifisso, un suo «supporter (Piedipapera?)» (Marchese), il coro (la voce del paese). Egli era un buon diavolaccio e viveva imprestando agli amici: è il narratore che accorcia la distanza nei confronti di zio Crocifisso, che in fondo è un povero diavolo costretto, per vivere, ad applicare le regole di un mondo darwiniano? O ancora, è il narratore che ironizza con quell’imprestando sul giudizio altrui (povero diavolo)? È la prospettiva di zio Crocifisso che parla di sè? È il giudizio interessato di Piedipapera che lo difende dagli attacchi maldicenti della gente o il giudizio confusamente ‘sincero’ dello stesso, incapace di oggettivare il ruolo dell’usuraio. Tutte queste prospettive infine risuonano come risposta indiretta all’opinione diffusa dello sfondo che lo vuole strozzino.
Non faceva altro mestiere: qui il narratore sembra riprendersi il discorso per rifrangerlo subito dopo, là dove lo stare in piazza colle mani nelle tasche riprende la pluridiscorsività giustificatoria di poc’anzi, contrapposta all’opinione diffusa del coro incapace di riconoscere un lavoro diverso da quello manuale. Quel giubbone tutto lacero infine riconduce nelle mani del narratore il filo del discorso, anche se il tono confidenziale di quel non gli avreste dato un baiocco sembra rivestire di carne ed ossa la voce lontana e distaccata del narratore, portandola sul piano del contatto.
Ma va sottolineata anche la modalità con cui i vari punti di vista sono disseminati nel discorso del narratore. Si prenda per esempio la voce di zio Crocifisso nella complessa espressione: «Insomma era la provvidenza per quelli che erano in angustie, e aveva anche inventato cento modi di render servigio al prossimo, e senza essere uomo di mare aveva barche, e attrezzi, e ogni cosa, per quelli che non ne avevano, e li prestava, contentandosi di prendere un terzo della pesca, più la parte della .barca, che contava come un uomo della ciurma, e quella degli attrezzi, se volevano prestati anche gli attrezzi, e finiva che la barca si mangiava tutto il guadagno, tanto che la chiamavano barca del diavolo»
Si potrà notare che dopo un avvio bivoco (era la provvidenza, aveva inventato cento modi di render servigio al prossimo, per quelli che non ne avevano) , la presenza dello strozzino si profila sempre più corposa staccandosi dallo sfondo pluridiscorsivo con le sue condizioni capestro (contentandosi, un terzo della pesca, la parte della barca, se volevano prestati gli attrezzi). Pare sentirlo sibilare tra i denti, a mezza voce il suo untuoso altruismo. Da notare poi la preziosità del climax costruito sul prezzo della barca: un terzo della pesca, più la parte della barca, più quella degli attrezzi. Lo strozzino si contenta di riscuotere tre volte, sotto forme diverse, lo stesso affitto: a un primo ingiustificato sovrapprezzo, un altro per l’utilizzo dell’attrezzatura per la pesca, come se non fosse implicito nella tipologia dell’imbarcazione. Alla fine la barca si porta via quasi tutto, compreso il suo padrone, trascinato dal cielo all’inferno. Il capovolgimento ironico della posizione di zio Crocifisso è compiuto ed è compiuto con le parole del coro (incapace di un giudizio diverso dalla semplicistica contrapposizione manichea di bene-male) disseminate nel discorso del narratore.
Come si vede il brano nasconde una riserva inesauribile di metamorfosi prospettiche, di espressioni ibride, di parole bivoche, di capovolgimenti ironici e smascheramenti (si confronti il viveva imprestando agli amici con «coll’interesse non c’è amicizia»).
Si potrebbe continuare l’analisi, raddoppiare o triplicare le osservazioni, ma forse è il caso di contentarsi, ricordando con Bachtin, l’enorme importanza della pluridiscorsività nello stile del romanzo e nella pluridiscorsività l’enorme importanza delle costruzioni ibride e delle parole bivoche, veicolate dallo stile indiretto libero.
4 Quando si parla di autore e lettore
4.1 Autore e lettore
In narratologia le nozioni dell’autore e del lettore non sono monoliticamente definite come nell’impiego comune dei termini, ma vengono scomposte in una rifrazione di figure secondo i diversi ruoli e relazioni che la mediazione del testo stabilisce tra le due entità.
In genere si distingue l’estensore dell’opera, dall’immagine che questi tende a dare di sé nel racconto e dalla voce narrante, anche se espressa in prima persona, come se fosse l’autore.
Analogamente si scorpora il lettore materiale del libro dalla tipologia di lettore immaginata dall’autore come destinatario e dal ruolo che in un modo o nell’altro il lettore può essere chiamato a svolgere nel racconto (i Venti lettori dei Promessi sposi, o il Lettore di Se una notte d’inverno).
La terminologia impiegata varia con gli autori, gli stessi termini possono delimitare campi o funzioni diverse, tuttavia nell’uso scolastico prevale la denominazione di autore reale, autore implicito, narratore a cui specularmente corrispondono il narratario, il lettore implicito, il lettore reale.
4.2 La focalizzazione
È il punto di vista dal quale il narratore organizza il materiale, riassumibile con la formula del chi racconta, (diversa dal chi parla).
La voce narrante può essere affidata a un narratore esterno alla storia che racconta, in tal caso si parla di focalizzazione extradiegetica oppure a un narratore interno (focalizzazione intradiegetica), oppure a un narratore onniscente (focalizzazione zero).
Nel racconto non focalizzato (focalizzazione zero) il narratore conosce tutti i particolari della vicenda, può indagare pensieri e stati d’animo dei personaggi, anche quelli di cui i personaggi non sono del tutto consapevoli, governa liberamente le categorie spazio-temporali con analessi e prolessi, vede, ordina e muove tutto dall’alto senza mai identificarsi, fa avvertire la sua presenza con interventi, giudizi e commenti diretti o indiretti (con la scelta di termini valutativi). È la focalizzazione tipica dei narratori del realismo ottocentesco come Balzac e Manzoni e si pone su una linea diametralmente opposta ai sostenitori del grado zero della scrittura.
Il narratore della focalizzazione interna (intradiegetica) è un personaggio della storia che racconta in prima persona vicende vissute molto da vicino come protagonista (diario, autobiografia) o per interposta persona, della quale riferisce il racconto. A volte impiega la terza persona, ma in ogni caso il narratore racconta secondo l’ottica del protagonista.
Della focalizzazione esterna o extradiegetica sono caratteristici l’impiego della terza persona, l’estraneità del narratore verso le vicende, che mostra di conoscere meno dei personaggi, l’astensione da alcun giudizio o valutazione, l’impiego delle categorie spazio-temporali nel loro naturale fluire. È un tipo di narrazione vicina agli ideali di scrittura scevra da significazioni ideologiche propugnate dalle teorie del grado zero di scrittura.
Le categorie più sopra esposte, comunemente impiegate nella pratica didattica, possono orientare nell’individuazione delle tipologie di focalizzazione e nel chiarire la posizione del narratore, ma vanno prese con una certa elasticità. Esse, infatti, né sempre sono esaustive (la focalizzazione interna nelle varianti dell’asino agisce non sulla partecipazione, ma sull’estraneità del narratore, per esempio) né trovano mai impiego, specie nel romanzo moderno, nella forma pura, ma in notevoli varietà di combinazioni, anche in una stessa pagina.
[1] «Chiamiamo costruzione ibrida una enunciazione che per i suoi connotati grammaticali (sintattici) e compositivi appartiene a un solo parlante, ma nella quale, in realtà, si confondono due enunciazioni, due maniere di discorso, due stili, due "lingue", due orizzonti semantici e assiologici. Tra queste enunciazioni, stili, lingue, orizzonti, lo ripetiamo, non c’è alcun confine formale (compositivo e sintattico); la divisione delle voci e delle lingue passa nell’ambito di un solo tutto sintattico, spesso nel giro di una semplice proposizione, spesso persino una stessa parola appartiene contemporaneamente a due lingue, a due orizzonti che s’incrociano nella costruzione ibrida e, quindi, ha due sensi pluridiscorsivi, due accenti» (Bachtin, Estetica e romanzo, p. 112-3).
Voci correlate
La presente pagina fa parte di un ipertesto sulle Lezioni americane di I. Calvino e sulle Metamorfosi di Apuleio.