Sin dai primi vagiti ognuno di noi si forma un'immagine del mondo (che via via si fa sempre più complessa) con la quale si orienta, interpreta le situazioni, regola i comportamenti... in una parola fa fronte alla realtà. Senza profondervi un particolare impegno, vien da sé — giorno dopo giorno, esperienza dopo esperienza, cantonata dopo cantonata, — che il nostro io si disegni un quadro mitologico.
Può succedere che, accanto al quadro mitologico modulato dal self antropocentrico, le conoscenze scientifiche e la riflessione inducano l'io a tratteggiare un quadro più disincantato — un quadro epistemologico — sottratto alle suggestioni del senso comune.
Che è quanto faremo qui, adottando un quadro secondo cui il sistema di immagini che orienta la comprensione della realtà è tributario delle strutture mentali, ossia dell'hardware e del software della mente, ancor prima del contesto culturale e di eventuali interessi di chi lo regge
Esemplifichiamo con le costellazioni. Possiamo credere o non credere all'astrologia, possiamo preferire all'astrologia nostrana quella cinese, potremmo imbarcarci in sofismi arditi a favore dell'una o dell'altra delle tesi, potremmo essere o no consapevoli che le tavole zodiacali insistono ad indicare il punto equinoziale di primavera nell'Ariete, anche se in realtà, per effetto della precessione degli equinozi, attualmente esso si trova nei Pesci; ma ogni discussione sarebbe troncata sul nascere, riflettendo sul fatto che le costellazioni, che i segni zodiacali, non ci sono, non esistono. È la nostra mente a proiettare su uno sfondo anch'esso evanescente com'è la volta celeste, delle immagini, unendo dei punti luminosi, distanti tra di loro anche anni luce.
Molto spesso facciamo diventare oggetti — reifichiamo — cose, che non sono altro che rappresentazioni mentali: l'orizzonte, la volta celeste, i meridiani, i paralleli, i numeri, i colori, le sette note, le quattro stagioni, le ventiquattro ore...
La stessa idea di universo, l'idea di un universo infinito, la sua origine molto devono ai nostri meccanismi mentali.
Se ci occorre l'idea di un nulla, l'idea di un nulla è un nulla; o, meglio, essa è già qualche cosa: e cioè una simulazione mentale suscettibile di offrirmi una commedia di silenzio perfetto e di tenebre assolute, nella quale so benissimo che io mi trovo nascosto, e pronto a creare non appena la mia attenzione si allenti un attimo; nella quale mi sento esistere, del tutto presente, vigile e indispensabile al fine di poter conservare, tramite un atto di cui sono consapevole, quell’assenza così fragile di ogni immagine, quella apparente nullità... Si tratta comunque, sempre, di un'immagine e di un atto: denomino me stesso Nulla solo per una convenzione momentanea.
Se invece io situo all'origine l'idea d'un disordine spinto all'estremo, spinto sin nelle minime particelle di ciò che fu, mi accorgo facilmente che quel caos inconcepibile è coordinato al mio progetto di concepire. Ho confuso io stesso le carte per potere poi ordinarle.
Quanto poi all'idea d'un inizio - d'un inizio assoluto, voglio dire -, essa è, per forza, un mito. Ogni inizio è coincidenza; dovremmo immaginare, a questo proposito, non so che contatto fra il tutto e il nulla. Se proviamo a pensarci, troveremo che ogni inizio è conseguenza -, ogni inizio conclude qualche cosa (P. Valéry, A proposito di «Eurêka», in ID., Varietà, SE, Milano 1990, passim).
Ma anche le cose che ci circondano da vicino non hanno tutte un'identità poi tanto compatta, monolitica, inequivoca. Per un negoziante un paio di occhiali è un'occasione di guadagno; per chi li inforca è qualcosa che entra a far parte della sua immagine, fino a occupare una parte del suo io. E così una fotografia e quant'altro. Per dirlo con Gadda le cose sono le infinite relazioni tra le cose.
Senza contare che gli stessi attributi degli oggetti, sui quali saremmo pronti a giurare, sono frutto più della nostra mente che reali. Per farla breve: l'albero che stai vedendo, non c'è.
Le gradazioni di verde dell'albero non sono intrinseche all'albero: sono un attributo che il mio organo di senso gli cala addosso, attributo che lascia verosimilmente indifferente l'organo di senso di un pipistrello o di una falena, nello stesso modo in cui sfugge al nostro senso quel groviglio di odori che è l'albero per il cane che teniamo al guinzaglio.
L'isomorfismo fra l'io e il fuori non è un dato obiettivo. Non c'è una realtà che si rispecchia pari pari dentro l'io.
Ogni specie si costruisce una sua immagine del mondo, secondo la propria specificità e non è detto che quella umana sia sempre la migliore, né che sia piovuta dal cielo. Il ramo dal quale discendiamo trae linfa dallo stesso albero da cui traggono nutrimento gli altri rami.
Parificazione e continuità tra le forme viventi, dunque.
Aiutiamoci con Il gorilla albino visto dal signor Palomar.
Canuto e immobile, lo scimmione evoca alla mente del signor Palomar un’antichità immemoriale, come le montagne o le piramidi. [...] Le mani, pelose e - si direbbe - poco articolate, all’estremità di braccia molto lunghe e rigide, sono ancora in realtà delle zampe, e come tali il gorilla le usa nel camminare, appoggiandole al suolo come un quadrupede.
Ora queste braccia-zampe stringono contro il petto un copertone di pneumatico d’auto.
Nell’enorme vuoto delle sue ore, «Copito de Nieve» non abbandona mai il copertone. Cosa sarà questo oggetto per lui? Un giocattolo? Un feticcio? Un talismano? [...]
Anche la femmina possiede un copertone d’auto, ma questo per lei è un oggetto d’uso, con cui ha un rapporto pratico e senza problemi: ci sta seduta dentro come in una poltrona, a prendere il sole spulciando il figlioletto. Per «Copito de Nieve» invece il contatto col pneumatico sembra essere qualcosa d’affettivo, di possessivo e in qualche modo simbolico. Di lì gli si può aprire uno spiraglio verso quella che per l’uomo è la ricerca d’una via d’uscita dallo sgomento di vivere: l’investire se stesso nelle cose, il riconoscersi nei segni, il trasformare il mondo in un insieme di simboli; quasi un primo albeggiare della cultura nella lunga notte biologica (I. Calvino, Romanzi e racconti II, pp. 942-944).
Una lunga notte biologica non del tutto cancellata:
Credo che i nostri meccanismi mentali elementari si ripetono dal Paleolitico dei nostri padri cacciatori e raccoglitori attraverso tutte le culture della storia umana (I. Calvino, Lezioni americane, Garzanti, 1988, p. 74).
Facciamo un esempio con L'Asino d'oro, di Apuleio quando Lucio parte dalla Grecia per Roma:
Fatti in fretta i miei bagagli, salii su di una nave e salpai verso Roma, e sano e salvo col favore dei venti giunsi prestamente al porto di Augusto. Di là in carrozza mi feci trasportare velocemente, e la sera precedente alle Idi di dicembre arrivai a questa sacrosanta città (L. Apuleio, L'asino d'oro, XI, 26).
Lucio ha impiegato diversi giorni per giungere a Roma, ma la sua percezione è di essere arrivato molto velocemente, né più né meno com'è per noi. Del resto gli ateniesi appresero in tempo reale la notizia della vittoria a Maratona benché il maratoneta che la portò dovette impiegare molto più tempo delle moderne telecomunicazioni.
Il senso del limite libera gli stessi effetti indipendentemente dalla collocazione: il meccanismo sotteso è lo stesso.
La velocità, per esempio, de’ cavalli o veduta, o sperimentata, cioè quando essi vi trasportano (...) è piacevolissima per sé sola, cioè per la vivacità, l’energia, la forza, la vita di tal sensazione. Essa desta realmente una quasi idea dell’infinito, sublima l’anima, la fortifica... (G. Leopardi, Zibaldone, 27 Ottobre 1821).
Trenta a cavallo o trecento sulla Rossa: l'emozione non cambia.
Ma andiamo un po' più a fondo o, meglio, indietro.
Cosa hanno di così toccante le pagine manzoniane dell'Addio monti? Oppure: cosa spinge Renzo a «guardare con un misto di tenerezza e d'accoramento, l'aurora del suo paese che non aveva più veduta da tanto tempo»? (Cap. XXXIII).
Quanto di prelogico, di preculturale, di biologico si nasconde in queste emozioni? C'è una linea di continuità con le beghe condominiali e di proprietà? L'attaccamento al territorio è una traccia della lunga notte biologica?
L'organizzazione biologica del cervello e di altri sistemi cibernetici degli esseri viventi esisteva molto prima della cultura verbalizzata; che essa continui a influire sul nostro comportamento e sulla nostra comunicazione è innegabile. Primordiali programmi di azione, sequenze, sentimenti, aspettative, nozioni, valori, sono ereditati da un remotissimo passato (W. Burkert, La creazione del sacro, Adelphi edizioni 2003, p. 41).
C'è una regione profonda della nostra mente occupata da vetusti inquilini?
In Cibernetica e fantasmi Calvino si interroga sulla letteratura come processo combinatorio e facendo leva – tra l'altro - sulle funzioni di Propp, constata che le infinite soluzioni narrative scaturiscono dalla combinazione di pochi elementi semplici, tant'è che anche un computer potrebbe tranquillamente mettersi a scrivere, se non fosse che il significato di un racconto scaturisce non dalla combinatoria in sé, ma dall'interazione con quanto di informe e di indefinito s'annida nell'inconscio.
La letteratura è sì gioco combinatorio che segue le possibilità implicite nel proprio materiale, indipendentemente dalla personalità del poeta, ma è gioco che a un certo punto si trova investito d’un significato inatteso, un significato non oggettivo di quel livello linguistico sul quale ci stavamo muovendo, ma slittato da un altro piano, tale da mettere in gioco qualcosa che su un altro piano sta a cuore all’autore o alla società a cui egli appartiene. La macchina letteraria può effettuare tutte le permutazioni possibili in un dato materiale; ma il risultato poetico sarà l’effetto particolare d’una di queste permutazioni sull’uomo dotato d’una coscienza e d’un inconscio, cioè sull’uomo empirico e storico, sarà lo shock che si verifica solo in quanto attorno alla macchina scrivente esistono i fantasmi nascosti dell’individuo e della società (I. Calvino, Cibernetica e fantasmi, in Saggi, Mondadori, p. 221).
C'è dunque una regione profonda sconfinante nel biologico, c'è un senso oscuro confuso ed anonimo, come potrebbe essere – per fare un esempio – quello di accudire e difendere i piccoli, che poi prende forma e si cristallizza in un mito, in una cultura.
In Cristo si è fermato ad Eboli Carlo Levi ci dà un esempio di comunità intessuta da quel senso oscuro e anonimo precedente il mito:
Il vedermi con una sorella muoveva uno dei loro più profondi sentimenti: quello della consanguineità, che, dove non c'è senso di Stato né di religione, tiene, con tanta maggiore intensità, il posto di quelli. Non è l'istituto familiare, vincolo sociale, giuridico e sentimentale; ma il senso sacro, arcano e magico di una comunanza (C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, p. 78).
Oppure riferito alla Giulia che gli faceva da serva:
Se c'è un modo di essere materno, dove non traspare nessun sentimentalismo, questo era il suo: un attaccamento fisico e terrestre, una compassione amara e rassegnata; era come una montagna battuta dal vento e solcata dalle acque, da cui sorgesse una collinetta più verde e gentile (Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, p. 137).
E ancora:
Avevo fatto venire da Bari una bigoncia di ferro smaltato per farci il bagno; e la mattina la portavo nella mia camera da letto per lavarmici, chiudendo la porta della cucina, dove la donna col suo bambino stava in faccende. La cosa pareva molto strana alla Giulia che un mattino aprì la porta, e senza mostrare di scandalizzarsi della mia nudità, mi chiese come mi fosse possibile fare il bagno senza che nessuno mi insaponasse la schiena, e mi aiutasse ad asciugarmi. Non so se fosse stata abituata dal prete a questo servigio, o se fosse un'antica tradizione, venuta dai tempi omerici, quando le donne lavavano e ungevano d'olio i guerrieri; ma certo, da allora, non potei evitare che la mia schiena fosse insaponata e massaggiata dalle sue dita ruvide e robuste. La strega si stupiva anche che io non le chiedessi di fare all'amore. - sei ben fatto, - mi diceva – non ti manca nulla -. Ma non insisteva, né diceva niente di più, abituata, in questo, a una animalesca passività, e rispettava la mia freddezza, che doveva certamente avere le sue ragioni misteriose (Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, p. 136).
Così scrive Calvino di Carlo Levi:
Il concetto primo dell’esperienza del Levi è il senso del sacro, senso oscuro e anonimo ch’egli vede in fondo a ogni manifestazione umana. Contrapposto al sacro è il religioso, cioè la relegazione di questo senso informe e indefinibile, in una formula, in un simbolo, in un mito, in qualcosa di preciso, di concreto, perciò di falso e innaturale. La concezione del Levi gioca sulla dialettica di questi due termini: il sacro generatore della libertà, dell’arte, dellasua anarchia individualistica ebarbarica,dell’amore sacro, narcisistico e solitario, e il religioso, generatore della tirannide, della schiavitù, della guerra, del sacrificio agli dèi (che poi diventa nella religione dello stato-Dio sacrificio di una parte della società, classe o razza, dei popoli nemici, dei propri eserciti consacrati alla morte). (I. Calvino, Carlo Levi, Paura della libertà in Saggi, pp. 1114-5)
Il sacro, dunque, è quel qualcosa di informe, oscuro, anonimo che orienta il nostro essere prima ancora di rapprendersi nel mito.
Proteggere il cucciolo è un primordiale programma di azione, ereditato da un remotissimo passato. Proteggerlo con una collana d'aglio, una conchiglia, una croce o un crocifisso è passare dal senso oscuro del sacro al religioso.
Sentiamo Carlo Levi in diretta:
Qual è il processo di ogni religione? Mutare il sacro in sacrificale: togliergli il carattere di inesprimibilità, trasformandolo in fatti e in parole: far dei miti, riti; dell'informe turgore, un uccello sacramentale; del desiderio, matrimonio; del suicidio sacro, omicidio consacrato. Religione è relegazione. Relegazione del dio nel legame delle formule, delle evocazioni, delle preghiere, perché non sfugga, secondo la sua inafferrabile natura. Il sacro, che è l'aspetto stesso del terrore, si fa legge, per salvarsi da se stesso. L'anarchia pura diventa pura tirannide. E relegazione dell'uomo, in quanto essere libero, nel legame stesso del sacro, e nel reciproco legame della comunanza di fronte alla divinità. Non c'è plebe senza re, non c'è massa senza Dio. Se è falso affermare che ogni società nasce da un rapporto religioso, è bensì vero che ogni monarchia è religiosa. Ogni re, grande o piccolo o minimo o familiare, è una sacra maestà: un essere divinamente ambiguo, che non ha nome vero, ma solo un nome simbolico e araldico (un numero), che vive nascosto, e che forse non esiste, o che tanto meno esiste quanto più appare. Ben a ragione gli antichissimi re, re veri, erano animali o forze della natura indeterminate; e la Cina fu governata dai re draghi, dai re tigri, dai re demoni – e l'Egitto dai suoi dèi-re dalla testa di cane (Carlo Levi, Paura della libertà, pp. 21-22).
Il sacro è trasversale a tutte le culture, unisce tutti i popoli sia sul piano sincronico che sul piano diacronico, spingendosi oltre gli stessi primi bagliori dell'umanità. Il religioso codifica il sacro in un mito in una cultura in una storia in una tradizione. Diventa principium individuationis senso di appartenenza, esclusione dell'altro, del diverso. Il sacro unisce, il religioso demarca separa.
Il mito tende a cristallizzarsi, a comporsi in formule fisse, passa dalla fase mitopoietica a quella ritualistica, dalle mani del narratore a quelle degli organismi tribali addetti alla conservazione e celebrazione dei miti (I. Calvino, Cibernetica e fantasmi, Saggi I, p. 222).
Il mito diventa tradizione. E la tradizione canonizzata sugli altari della reificazione (non esiste una tradizione; ogni tradizione è sempre comunque selezione, estrazione, reinterpretazione e rielaborazione) oltre che essere occasione di identificazione personale e/o collettiva, diventa uno strumento retorico brandito contro altre tradizioni, altre identità.
Una società multiculturale si costruisce sulle radici del sacro.Voci correlate
Eros al femminile (dove si parla di Fotide e della Matrona — siamo nell'Asino d'oro di Apuleio — che nella loro trasparenza e immediatezza interpretano un rapporto sereno, libero, disinibito, senza filtri, sacro con la sessualità)
La presente pagina fa parte di un ipertesto sulle Lezioni americane di I. Calvino e sulle Metamorfosi di Apuleio.