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Lucio Apuleio

Lucius Apuleius (125-170 ca) scrittore latino autore dell'Asino d'oro, l'unico romanzo in lingua latina giuntoci per intero.

Nativo di Madaura in Numidia da nobile ed agiata famiglia compì studi  retorici dapprima a Cartagine poi ad  Atene, dove potè avvicinarsi alle filosofie platonica ed aristotelica, coltivare varie discipline scientifiche ed iniziarsi a un gran numero di culti misterici, che lo spinsero a compiere frequenti viaggi in Oriente.

Cultore di arti magiche e scienze occulte - nel 158 deve scagionarsi dall'accusa di stregoneria - irrequieto e curioso, mai sazio di conoscenze ed esperienze peregrinò a lungo prima di concludere, onorato e famoso, la vita a Cartagine, lasciandocene un riflesso nelle vicende di Lucio.

Apuleio


Una mentalità parificante

È improprio sovrascrivere l’integralismo monoteista su una mentalità che accoglieva con spirito parificante qualsiasi nuova religione o corrente di pensiero. La stessa iniziazione di Apuleio ai misteri isiaci - elemento ampiamente sventolato dagli interpreti di Apuleio - si accompagnava a una delle tante iniziazioni a cui il nostro si era accostato, senza peraltro rinunciare alle arti magiche.

Al processo intentatogli per stregoneria così si difese:

«Sono stato iniziato in Grecia alla maggior parte dei culti misterici; e conservo scrupolosamente contrassegni e oggetti ricordo consegnatimi dai sacerdoti. Non dico nulla di strano o di inaudito. Voi mysti del Padre Libero, che siete presenti, sapete bene che cosa tenete nascosto e custodito in casa vostra, per venerarlo quando non ci sono estranei... E non può sembrare strano a nessuno di quelli che abbiano anche solo una minima conoscenza di culti religiosi il fatto che un uomo che ha avuto esperienza di tante cerimonie mistiche e divine ne conservi in casa sua gli amuleti... Ho detto che conservo con grande devozione tanti contrassegni e oggetti ricordo; lo confermo a chiare note: se c'è per caso qualcuno qui che sia membro delle stesse confraternite, mostri il segno di riconoscimento e io gli dirò che cosa custodisco in casa; ma nessuna minaccia mi potrà costringere a raccontare a un profano ciò che ho appreso sotto giuramento (Apologia, 55/56)».

«Lo sfondo delle pratiche misteriche: è la pratica del fare voti» (Burkert, Antichi culti misterici, Laterza, 1989, p. 21), del fare promesse alla divinità, e «la religione votiva ha piuttosto un carattere sperimentale: è ben lecito tentare diverse possibilità, al fine di trovare l'espediente veramente efficace» (ivi, p. 24).

Nelle iniziazioni misteriche «non c'è destabilizzazione né distruzione della personalità, ma piuttosto un approfondimento o un'estensione della religiosità preesistente attraverso una nuova intimità con il divino in forme sia familiari sia nuove» (ivi, p. 70). Non a caso il myste prestava il giuramento di segretezza «“in nome degli dèi che adoro”» (ivi, p. 69), che è «l'esatto opposto della “conversione”, dell'ingiunzione di “bruciare quello che hai adorato”» (ivi, p. 70).

Estrarre un intento missionario dall’Asino d’oro è un’operazione impropria. (A. Piacentini, Eros al femminile, pp. 153-154).






Copertina Eros al femminile

Tra il cristallo e la fiamma


copertina e-book tra il cristallo e la fiamma


copertina della Consistenza

 

1 Apuleio come Cristo

Apuleio, «cui una incerta tradizione attribuisce il prenome piuttosto sospetto di Lucio»,[1] è stato uno scrittore assai prolifico. Della sua vasta produzione ci sono giunti i  Florǐda (un florilegio, un’anto­logia di discorsi), l’Apologia o Pro se de magia liber (una brillante orazione pronunciata per difendersi dall’accusa di magia) e i Metamorphoseon Libri XI, ovverosia L’asino d’oro.

Poca roba in fin dei conti, ma sufficiente, anzi fin troppa, per costruire un’immagine assai addomesticata di Apuleio. Sì, perché di questo barbaro pagano della Numidia se ne volle fare, impropriamente, un paladino della fede, della fede in Iside in realtà, ma pur sempre fede, sulla quale poi, sia pure a piccoli passi, ma inesorabilmente, ci si fa scivolare sopra la vera fede (non dirò quale), fino a farne un paladino della militia cristiana.[2]

E pensare che a detta di  Lattanzio[3] i pagani pretendevano di paragonare e addirittura di anteporre a Cristo, Apuleio. Sì perché, tra le altre cose Apuleio ci sapeva fare, eccome, anche con i miracoli, al punto da finire sotto processo, in particolare per avere fatto il miracolo di restituire a una vidua (che, per inciso era la madre di un suo carissimo compagno di studi), una vidua di rango, quindi, una matrona, benché vedova ma matrona, ebbene ha fatto il miracolo di restituirle la voglia di uomo, così che Pudentilla (tale il nome della vidua), lì sui due piedi riversò gli effetti di tale miracolo seduta stante sullo stesso Apuleio, che per sapere né leggere né scrivere se la sposò, ammesso che non sia vero il contrario ossia che sia stata Pudentilla a sposarsi Apuleio.

In ogni caso i parenti, a cominciare dal suocero di Pudentilla, che avevano visto di malocchio il miracolo (Apuleio era ben più giovane di Pudentilla: avrebbe avuto tutto il tempo di godersi l’eredità) lo trascinarono in giudizio, dove Apuleio se la cavò compiendo un secondo miracolo, proprio davanti agli occhi degli stessi giudici, pronunciando un’orazione con la quale invece di discolparsi dall’accusa di magia fece un’apologia della magia, non negando, dunque, anzi confermando i suoi poteri sovrannaturali. E per dimostrare quanto fosse lontano dalle cose di questo mondo, rinunciò all’eredità di Pudentilla. (Apuleio, tra un miracolo e l’altro,  ci sapeva fare come principe del foro e come conferenziere: per questo attraversava in lungo e in largo il Mediterraneo).

Come si conviene a chi ha lasciato dietro di sé  l’odore di santità, Apuleio, non si limitò a fare miracoli da vivo. Reitera miracoli anche da morto. In particolare ne fa uno (anzi almeno un paio), che si perpetua ogni santo giorno del calendario, ossia far prendere ai suoi studiosi - numerosissimi e blasonati – per oro colato ciò che ha scritto nell’Apologia, come se la sua strategia difensiva fosse ispirata dall’intento di dichiarare il vero, piuttosto di badare a come fare a far salva la pelle. La lex Cornelia de sicariis et veneficis prevedeva la poenam ad capitis- la pena capitale - per i rei di magia. E pensare che questi studiosi hanno pur sottomano il caso di un certo Vatinio «fatto a pezzi tra gli applausi degli dei e degli uomini»[4] (è lo stesso Cicerone a dirlo) dal pubblico ministero Cicerone e in un altro processo ricomposto come un santino dall’avvocato difensore Cicerone.

Il secondo miracolo da defunto Apuleio lo reitera  ad ogni sorgere del sole con i Metamorphoseon Libri XI, ben presto ribattezzati l’Asino d'oro. E non a caso, perché l’asino è un animale «notoriamente “sessuale”»,[5] e di sessualità nelle Metamorfosi se ne parla in lungo e in largo e di traverso: dalla sessualità più compulsiva (Meroe e Pantia), alla sessualità senza fondo di Panfile, alla sessualità fallocentrica del senso comune maschilista di Lucio, alla sessualità trasparente di Fotide e della Matrona, fino alla sessualità trasfigurata nell’eros di Amore e Psiche, dove il simbolo della sessualità si fa d’oro.

Ebbene un romanzo siffatto viene inteso dagli studiosi come la fondazione di un nuovo mito, del mito di Iside. «La sua religione è quella di Iside, di cui l’undicesimo libro del romanzo lo rivela fedele e missionario» dice Pasini.[6] E qui ci scappa un altro miracolo:  nel prendere la religione di Iside come un nuovo mito, quando il culto di Iside era ampiamente affermato al tempo di Apuleio.[7]

Anzi doppio miracolo, perché Apuleio, è lui stesso a dirlo, in Grecia era stato iniziato alla maggior parte dei culti misterici, di cui conservava scrupolosamente contrassegni e oggetti ricordo consegnatigli dai sacerdoti. Non solo il culto di Iside, dunque. (V. nella colonna qui a fianco Una mentalità parificante).

Molto polverone è stato sollevato  anche attorno al platonismo di Apuleio, che serve soprattutto per spiegare che Amore e Psiche  è la parabola dell’anima che ritorna in cielo. Ma Psiche non “ritorna” in cielo: «Psyché est une mortelle, qui devient déesse. Elle n'est pas une divinité déchue».[8] Psiche è una mortale, che diventa dea, non una divinità decaduta. Il suo è un viaggio di andata verso il cielo, non il ritorno.

Né importa il fatto che il cielo in cui Psiche ritornerebbe è un cielo piuttosto atipico, anzi grottesco.

Giove accetta la richiesta di Cupido di accogliere Psiche in cambio di una ricompensa: se c’è una pollastrella in terra particolarmente avvenente portamela in cambio del favore che ti faccio.

E il banchetto nuziale si svolge in un clima assai sbracato tra una Venere pienotta e sculettante circondata da satiri e panischi, adusi con il loro aspetto impudico ad ammiccare alle frenetiche orge dionisiache piuttosto che ai moti dell’anima…

«È vero che "filosofo platonico" è l'appellativo ch'egli amò dare a se stesso, come suggello della istruzione conseguita ad Atene: ma si trattava, per Apuleio ancor più che per la maggior parte dei suoi contemporanei addetti a questa scuola, d'un platonismo straordinariamente ibrido e suscettibile dei più arbitrari travisamenti».[9]

Un platonismo dunque dai contorni incerti a cui è facile far contenere ciò che interessa.
In realtà Apuleio è un istrione e in quanto tale inafferrabile. Molto probabilmente Apuleio s’è preso gioco di tutto e di tutti accumulando sulle pagine dell’Asino d’oro qualcosa di simile alla patafisica di Jarry, ossia uno sberleffo metafisico.[10]





2 Uno sberleffo metafisico

Nell’Asino d’oro c’è tutto e il contrario di tutto e su tutto regna lo sberleffo. Tutti i racconti dell’Asino d’oro finiscono in gloria, non solo la festa del dio RisusAmore e Psiche o il libro undicesimo. Anche nei tratti in cui prende forma un fantastico tenebroso e truculento - vedi le orrende mutilazioni di Telifrone (II, 19-30) - «le parti drammatiche rimangono piuttosto isolate, e la tensione che in esse si accumula è presto smorzata da elementi comici» (Graverini 1998, p. 126). Lo sberleffo è il filo unificante di questo singolare romanzo, «uno dei più originali» libri «che l’antichità ci abbia tramandato» (Scazzoso, p. 21).
Nel corso di tutta la sua carriera Apuleio aveva rivelato un «temperamento scanzonato e volubile […] che vuol avere successo, farsi leggere e colpire il lettore suscitando diverse impressioni» (ivi, p. 18). Forse nel corso di tutta la sua vita Apuleio ha inseguito lo sberleffo dell’Asino d’oro. Lo stesso «tono ironico e beffardo» (Roncoroni, p. XII), «scaltro ed ambiguo» (Scazzoso, p. 15) della sua linea di difesa al processo intentatogli per magia dai parenti di Pudentilla, documentata dall’Apologia, «ricca di citazioni e di digressioni, stilisticamente preziosa e ricercata» (Roncoroni, p. XIII), se non è già sberleffo, perlomeno «nell'arditezza barocca di una espressione ardita e tutta a barbagli» (Roncoroni, p. XIII) che «cela più d'un crittogramma» (Tasinato, p. 62 ) lascia ben presagire l’Asino d’oro. Apuleio «nello stesso tempo in cui si discolpa dall’accusa di magia, dimostra di essere un espertissimo conoscitore di tale arte, né vuole rinunciare a una fama che non gli dispiaceva e che anzi lo elevava alla gloria dei taumaturghi più celebri del suo tempo» (Scazzoso, p. 15).
Apuleio gioca. Gioca a più tavoli: difende la magia non perché crede ai sortilegi, benché li praticasse, ma per la necessità di difendersi, di uscire indenne dal processo, peraltro ridotto dall’autodifesa di Apuleio «a un gioco di parole o immiserito a bell'arte in una con le accuse» (Ciaffi, p. VII). Per uscire dal processo e per mantenersi una fama che non gli puzzava tenersi addosso. Diversamente non avrebbe lasciato disorientati i suoi interpreti: «Apuleio stesso nelle Metamorfosi non è chiarissimo» sulla magia (Augello, p 24, n. 44). Se Apuleio avesse avuto fede nelle arti magiche non avrebbe smascherato la magia con l’Asino d’oro!
Probabilmente anche lui come Gadda è «uno di quegli scrittori che sono, in fondo, autori di un’unica opera, rispetto alla quale i singoli libri, saggi o racconti, sono semplici capitoli o parziali redazioni, o addirittura raccolte di materiali» (Roscioni, p. 50).
Approdato alla maturità, raggiunta la pienezza dei suoi mezzi espressivi, Apuleio «returned from his travels and settled down in Carthage» (Griffiths, p. 10) scrive finalmente “le livre” fino allora vanamente inseguito. Dal fondo della sua vita, dall’alto della sua multiforme esperienza, può irridere la «vacuità e l'inutilità» di un mondo, in cui «i vecchi valori erano ormai venuti meno e i nuovi tardavano a nascere» (Roncoroni, p. IX), vacuità e inutilità che vanamente il virtuosismo retorico della seconda sofistica tentava di imbiancare, lasciando aperto il campo alle scorribande delle spinte mistiche o pseudomistiche, sollecite nei momenti di crisi ad uscire dallo stand-by.
Un mondo che era lo stesso mondo di Apuleio. Ma, conseguito il successo, raggiunta la distaccata serenità della maturità, dall’alto della postazione di uno che non ha nulla da perdere Apuleio dà libero sfogo al suo scanzonato temperamento, stemperando sulla vanità del mondo che gli sta d’attorno «il piacere del gioco insostituibile contrassegno dell’umano» (Calvino, 1981, p. 1412). Un piacere che trascende il mero intento ludico, per impregnare la stessa sostanza delle cose, la sostanza dell’io e la sostanza della propria sorte e della sorte dei propri coevi. È troppo complesso e raffinato il tessuto verbale di Lucio perché possa contentarsi del cruciverba fine a se stesso. Profonde troppa energia Apuleio nell’Asino d’oro per contentarsi del gioco autoreferente. Il gioco verbale di Lucio è sistema, è quadro epistemologico, come lo è la deformazione linguistica di Gadda.
Il gioco verbale di Lucio è un gioco metamorfico che trasfigura i paradossi di un’epoca, così come le metamorfosi di Alice trasfigurano i paradossi della logica. 
È per questo che la voce solista di Rudolf Helm s’è persa nel deserto. Helm ha compiuto la meritoria impresa di ricondurre le vicende di Lucio e di Psiche nell’ambito loro proprio, ossia letterario (cfr. Moreschini 1994, pp. 57-59), a fronte della pletora mistico-religioso-simbolica che le portavano a zonzo. Ma rifiutando qualsiasi «intento che non fosse ludico», qualsiasi «significato che andasse al di là della piacevolezza del raccontare» (ivi, p. 59), ha mancato l’obiettivo di «una vera e funzionale interpretazione» (ivi). Ma non per essersi scontrato «con l'evidenza, rappresentata dal libro undicesimo delle Metamorfosi, e con la propaganda isiaca e con la interpretazione che quel libro dava delle avventure di Lucio» (ivi), ma per non avere intravisto l’epistemologia sottesa ai giochi linguistici di Apuleio. Il «legame tra le scelte formali della composizione letteraria e il bisogno di un modello cosmologico (ossia d’un quadro mitologico generale) credo sia presente anche negli autori che non lo dichiarano in modo esplicito».

(A. Piacentini, Eros al femminile, pp. 121-124).





 

Note
[1] A. Rostagni, Storia della Letteratura latina, UTET, 1952, vol. II, p. 615.
[2] P. Citati, La luce della notte. I grandi miti nella storia del mondo, Mondatori, Milano 1996, p. 92.
[3] Institutiones Divinae, V, 7.
[4]Si tratta della ben nota Oratio in Publium Vatinium testem, (Orazione contro il testimone Publio Vatinio)
[5] Apuleio, Metamorfosi o L’asino d’oro, Traduzione di Alessandro Fo con testo a fronte, Frassinelli, 2002, p. 622.
[6] Apuleio, Amore e Psiche, prefazione, traduzione e note di Gian Franco Pasini, Fògola, Torino 1983, pp. XXIII-XXIV.
[7] Il collegio dei pastofori in cui entra Lucio, il protagonista dell'Asino d'oro, risale ai tempi di Silla (I sec. a.C.). È pur vero che il culto di Iside nell’Urbe dovette fare i conti con l’opposizione dell’aristocrazia, ma l’Iseo Campense edificato nel Campo Marzio è del 43 a.C.. Distrutto da un incendio nell’80, viene subito ricostruito da Domiziano e restaurato da Adriano (117-138), un santuario imponente di 240 metri per 60, capace di simulare le piene del Nilo. E le periferie non sono da meno. nell’Iseo di Pompei sono stati trovati i resti di un sacrificio. 
[8] Jeanmarie Henri, Le conte d'Amour et Psyché, «Bulletin de l'Institut Français de Sociologie» 1 (1930), p. 34.
[9] A. Rostagni, Storia della Letteratura latina, cit., p. 616.
[10] «La patafisica viene definita come la “Scienza delle soluzioni immaginarie”». (I. Calvino, La filosofia di Raymond Queneau, in ID, Saggi, (1945-85), [2 volumi], a cura di M. Barenghi, Milano, 1995, vol. I, p. 1421).





Voci correlate

L'asino d'oro

Eros al femminile

Patafisica

La presente pagina fa parte di un ipertesto sulle Lezioni americane di I. Calvino e sulle Metamorfosi di Apuleio.

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