1 Bachtin
Animatore di un gruppo di studiosi di Leningrado che si poneva l'obiettivo di fondare una poetica marxista aliena dagli eccessi del realismo sovietico, Bachtin sviluppa un'originale ricerca critico-teorica, attenta alle prospettive sondate dal formalismo russo, del quale rifiuta le implicazioni riduttive, e parimenti orientata ad esplorare i rapporti che legano l'autore e l'opera al loro tempo, evitando l'automatismo pratico del metodo sociologico adottato dalla cultura sovietica.
La prospettiva dinamica dell'analisi bachtiniana estende la nozione di tempo a tutto il lontano passato che costituisce il «lungo e complesso processo di maturazione» di cui l'opera letteraria raccoglie «i frutti maturi».
L'opera letteraria non rispecchia una situazione storica determinata. Il suo tempo è il «tempo grande» che affonda le sue radici in un antico passato «di soggetti, di voci, di sguardi sul mondo» (Calvino) e che si protende verso un futuro sempre aperto. Per questo non si esaurisce nel suo tempo.
Una lunga tradizione letteraria – che Bachtin ripercorre fino a scoprirne le origini nella cultura popolare del riso – è permeata da questo dialogo a distanza, da questo intreccio di modelli e di possibilità che trova nel romanzo la sua forma moderna d'espressione.
Bachtin, anche con studi teorici dedicati al romanzo, ha tracciato una linea di lettura che non ha mancato di stimolare e orientare tanti filoni della critica che si muove nell'ambito della «nouvelle critique».
2 Michail Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica
È lo studio nel quale Bachtin introduce il concetto di narrazione polifonica per spiegare la poetica di Dostoevskij.
Le stimolanti proposte metodologiche e la ricostruzione storica del genere romanzesco fanno del saggio un punto di riferimento ineludibile per la storia e l'interpretazione della prosa romanzesca in generale.
2.1 «Secondo quel modello che Bachtin ha chiamato dialogico o polifonico o carnevalesco»
È il romanzo in cui interagisce una pluralità di voci e di «coscienze indipendenti e disgiunte», portatrici ciascuna di un'ideologia con i propri orizzonti compiuti, nessuna delle quali prende il sopravvento o diventa la voce dell'autore.
Il modello di romanzo polifonico viene introdotto per la prima volta da Bacthin delineando in Dostoevskij. Poetica e stilistica (1929) la peculiarità dell'opera di Dostoevskij.
La coesistenza di più voci ognuna portatrice di una sua visione del mondo, che interagiscono in un dialogo privo di esito finale, la eterogeneità[1] del materiale, la pluralità di stili non ricondotti all'unità di un tono personale, l'appiattimento della dinamica temporale alla categoria della contemporaneità, non consentono alle categorie artistiche comunemente impiegate l'interpretazione della poetica di Dostoevskij.
È vana o quanto meno non esaustiva l'individuazione dell'unità del romanzo dostoevskiano nel percorso dell'idea o nell'affermazione dello spirito attraverso le contraddizioni di una realtà contraddittoria e complessa. L'unità si svolge a un livello superiore al piano delle singole voci. La pluralità di orizzonti e l'eterogeneità dei materiali raggiungono l'unità nella coesistenza e nell'interazione, mantenendo, come nel contrappunto polifonico, ciascuna la compiutezza e l'autonomia della propria vocalità.
Nella polifonia, nel grande dialogo tra più voci, e tra le voci di una singola coscienza, senza il predominio di nessuna, si svolge la peculiarità stilistica e poetica di Dostoevskij. Nel suo mondo artistico non c'è nulla di compiuto, di definitivo, né la sua voce si erge sulle altre con tono risolutorio.
La polifonia del romanzo dostoevskiano esprime il senso di precarietà, la provvisorietà delle certezze, la negazione di ogni prospettiva totalizzante, analogamente alla cultura carnevalesca del riso e in opposizione «ad ogni perpetuazione» di regole e di rapporti interpretati staticamente dai canoni del classicismo.
Certamente la contraddittorietà della vita sociale della Russia del XIX secolo dove l'improvviso emergere del capitalismo «trovò una intatta molteplicità di mondi e di gruppi sociali» non poteva rientrare «nei limiti di una coscienza monologica sicura e tranquilla» (M. Bachtin, Dostoevskij, Poetica e stilistica, Piccola biblioteca Einaudi, 1968, p. 30).
Ma il romanzo polifonico di Dostoevskij non può essere dissolto nelle analisi storico-sociali: esso porta a maturazione artistica le nuove forme di una lunga tradizione letteraria che affonda le sue radici nella cultura carnevalesca del riso.
2.2 «Gli antecedenti da Platone a Rabelais a Dostojevski»
2.2.1 La tradizione serio-comica
(Vedi M. Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, cit., pp. 139-141)
Un settore “minore” della letteratura, definito serio-comico già nell'antichità classica, ha affiancato per lo meno dai tempi di Socrate i generi epici e retorici della tradizione alta.
Costituito da «numerosi generi, esteriormente piuttosto differenti, ma» accomunati dal legame con il folclore carnevalesco, del quale spesso sono trasposizione letteraria, ha conosciuto in ogni epoca un rigoglioso sviluppo fino a confluire nel romanzo moderno. Pur nella loro varietà esteriore i generi del serio-comico presentano alcune particolarità che li caratterizzano rispetto ai generi seri (epopea, tragedia, storia, retorica classica...): la realtà non è quella sfumata del mito o della leggenda, ma quella «del contatto immediato e perfino rozzamente familiare con i contemporanei»; i personaggi, aperti alla libera invenzione, si muovono assolutamente svincolati dalla tradizione; lo stile, estremamente vario nei toni e nelle voci accoglie gli innesti più disparati.
Tra i generi di questa linea, che Bachtin definisce dialogica, determinanti sono stati il dialogo socratico e la satira menippea.
2.2.2 La menippea
Ma se già dai tempi di Platone il dialogo socratico tendeva a stemperare la componente dialogica e carnevalesca nel monologismo, la menippea che proprio su quella manteneva la sua «profonda integrità interna» (ivi, p. 155) diventava, per la sua plasticità esteriore, per la «capacità di assimilare i minori generi affini[il simposio, il soliloquio, la diatriba] e di entrare come elemento integrante in altri generi maggiori» (ivi, p. 156), il genere più adeguato a rappresentare le pulsioni dei due mondi al capolinea: l'antico e il medioevale. Non a caso i «generi narrativi della letteratura cristiana antica» (ivi, p. 158) sono stati ampiamente influenzati dalla plasticità della menippea (v. ivi, p.176).
Nel Medioevo la menippea continua a «vivere e a rinnovarsi in alcuni generi della letteratura chiesastica latina che continuava direttamente le tradizioni della letteratura paleocristiana, soprattutto in alcune varietà di letteratura agiografica. In forma più libera e originale la menippea vive in generi dialogizzati e carnevalizzati del Medioevo come le desputaisons, le dits, i débats, le moralità e i miracoli, e nel tardo Medioevo i misteri e i soties.[2] Elementi della menippea si avvertono nella letteratura medievale parodistica e semiparodistica nettamente carnevalizzata: nelle visioni parodistiche d'oltretomba, nelle “letture evangeliche” parodistiche, ecc. Infine, un momento importante dello sviluppo di questa tradizione di genere è la letteratura novellistica del Medioevo e del primo Rinascimento, profondamente penetrata di elementi di menippea carnevalizzata.
«Tutto questo sviluppo medievale della menippea è penetrato di elementi di folclore carnevalesco locale e riflette le specifiche particolarità dei vari periodi del Medioevo.
«Nel Rinascimento - epoca di profonda e quasi totale carnevalizzazione[3] della letteratura e la concezione del mondo - la menippea penetra in tutti i grandi generi dell'epoca (in Rabelais, Cervantes, Grimmelshausen e altri), contemporaneamente si sviluppano le forme rinascimentali originali della menippea che nella più parte dei casi uniscono le tradizioni antiche e medievali di questo genere: Il cembalo del mondo di Des Périers, l'Elogio della follia di Erasmo, le Novelle esemplari di Cervantes, la Satyre ménippée de la vertue du Chatolocon d'Espagne (1594), che è una delle più grandi satire politiche della letteratura mondiale, le satire di Grimmelshausen, di Quevedo e altri.
«Nell'età moderna accanto all'introduzione della menippea in altri generi carnevalizzati continua il suo sviluppo autonomo in diverse varianti e sotto varie denominazioni: "dialogo di Luciano", "conversazione nel regno dei morti" (varietà in cui prevalgono le tradizioni antiche), "romanzo filosofico" (forma di menippea caratteristica dell'illuminismo), "racconto fantastico" e "favola filosofica" (forme caratteristiche del romanticismo, ad esempio di Hoffmann), ecc. Si deve qui rilevare che nell'età moderna delle particolarità di genere della menippea si serviranno varie tendenze letterarie e vari metodi creativi, rinnovandole, s'intende in diverso modo. Così, ad esempio, il razionalistico "romanzo filosofico" di Voltaire e la romantica "favola filosofica" di Hoffmann) hanno aspetti di genere comuni della menippea e sono carnevalizzati con uguale nettezza nonostante la profonda differenza della loro tendenza artistica, del contenuto ideale e, naturalmente, dell'individualità creativa (basta confrontare, ad esempio, Micromegas e Il piccolo Zaches). Si deve dire che la menippea nelle letterature dell'età moderna è stata la principale via delle forme più concentrate e vivaci di carnevalizzazione» (Dostoevskij, Poetica e stilistica, cit., pp. 177-178).
L'intreccio avventuroso e la problematicità filosofica, nutrimenti della polifonica eterogeneità del romanzo dostoevskiano, si inseriscono, rinnovandola e portandola «alla sua più alta vetta» in questa tradizione di genere.
3 La carnevalizzazione della letteratura
3.1 Il carnevale: la festa del tempo
«L'atmosfera carnevalesca dominava nei giorni di fiera, nelle feste della vendemmia, nei giorni di rappresentazione di miracoli, di misteri, ecc.; tutta la vita teatral-spettacolare del Medioevo aveva carattere carnevalesco. Le grandi città del tardo Medioevo (come Roma, Napoli, Venezia, Parigi, Lione, Norimberga, Colonia, ecc.) vivevano di piena vita carnevalesca in complesso per circa tre mesi all'anno (talora anche di più). Si può dire (con certe riserve, naturalmente) che l'uomo medievale viveva due vite: una ufficiale, monoliticamente seria e accigliata, sottomessa a un rigoroso ordine gerarchico, piena di paura, dogmatismo, devozione e pietà, e un'altra carnevalesca, di piazza, libera, piena di riso ambivalente, di sacrilegi, profanazioni, degradazioni e oscenità, di contatto familiare con tutto e con tutti. Entrambe queste vite erano legalizzate, ma divise da rigorosi confini temporali» (Dostoevskij, Poetica e stilistica, cit., p. 169).
Il carnevale, «l'insieme di tutte la feste di tipo carnevalesco» che nell'antichità e nel Medioevo occupavano nell'insieme diversi mesi dell'anno, è una forma «di spettacolo sincretistica di carattere rituale» (ivi, p. 159) che assume variazioni e sfumature diverse nelle epoche, nei popoli e nelle singole feste.
Caratteristica qualificante è l'abbattimento di ogni regola introdotta per dividere, per separare, per demarcare, degli ambiti, dei confini. Sulla piazza del carnevale non ci sono esecutori e spettatori, cadono le distinzioni di classe e gerarchiche, «e tutte le forme ad esso collegate di terrore, devozione, pietà, etichetta», si stabilisce il «libero contatto familiare tra gli uomini» che si estende «su tutti i valori, pensieri, fenomeni e cose». «Il carnevale avvicina, unisce, collega e combina sacro e profano, sublime e infimo, grandioso e meschino, saggio e stolto» (ivi, p. 161) La sua categoria ricorrente è la profanazione: sacrilegi, parodie di riti e testi sacri, oscenità «legate alla forza produttiva della terra e del corpo».
«Tutte queste categorie carnevalesche non sono idee astratte sull'equaglianza e la libertà, sul reciproco legame del tutto, sull'unità dei contrasti, ecc. No, sono idee concreto-sensibili, ritual-spettacolari vissute e interpretate nella forma della vita stessa, formatesi e conservatesi nel corso di millenni in seno alle più larghe masse popolari dell'umanità europea. Per questo esse hanno potuto esercitare una così enorme influenza formale, formatrice di generi nella letteratura» (ivi).
«Il carnevale è la festa del tempo che tutto distrugge e tutto rinnova» (ivi, p. 162). Questo pensiero, espresso nella forma concreto-sensibile dell'atto rituale, è il nucleo del carnevale che trova nell'incoronazione e nella scoronazione del re del carnevale (v. il Decameron) l'azione principale, l'azione che vivifica e permea la logica di tutte le categorie del mondo carnevalesco. L'incoronazione implica la scoronazione e dietro di essa si intravede una nuova incoronazione e una nuova scoronazione. È il «pathos delle sostituzioni e dei mutamenti, della morte e del rinnovamento», della «gaia relatività di qualsiasi regime e ordine, di qualsiasi potere e di qualsiasi posizione» (ivi).
Il carnevale non conosce né assolute affermazioni, né assolute negazioni: ogni sua immagine è ambivalente. «Tutte le immagini del carnevale sono uniche e duplici al tempo stesso, esse uniscono in sé ambedue i poli dell'avvicendamento e della crisi: nascita e morte (l'immagine della morte pregna di vita), la benedizione e la maledizione (le benedicenti maledizioni carnevalesche con l'augurio contemporaneo di morte e rinascita), la lode e l'ingiuria, la gioventù e la vecchiaia, l'alto e il basso, il volto e il deretano, la stoltezza e la saggezza. Assai caratteristici del pensiero carnevalesco sono le figure accoppiate, scelte per contrasto (alto-basso, grasso-magro e così via) e per somiglianza (gemelli-sosia). Caratteristico è pure l'uso degli oggetti alla rovescia: vestiti indossati alla rovescia (o sottosopra) gonne sulla testa, vasi al posto dei copricapi, l'uso di utensili domestici come armi e così via» (ivi, p. 164). «Profondamente ambivalente è nel carnevale l'immagine del fuoco [...] che contemporaneamente distrugge e rinnova».
«Profondamente ambivalente è lo stesso riso carnevalesco. Geneticamente esso è legato alle antichissime forme del riso rituale. Il riso rituale era rivolto verso qualcosa di superiore: si beffeggiava e derideva il sole (dio supremo), gli altri dèi, il supremo potere terrestre, per costringerli a rinnovarsi e a rigenerarsi. Tutte le forme del riso rituale erano legate alla morte e alla resurrezione, all'atto della riproduzione, ai simboli della forza produttiva. Il riso rituale reagiva alle crisi nella vita del sole (eclissi solari), alle crisi nella vita delle divinità, nella vita del mondo e dell'uomo (riso funebre). In esso la derisione si fondeva con il giubilo» (ivi, p. 165).
All'ambivalenza del riso è legata la parodia: l'antichità parodiava tutto, «poiché tutto rinasce e si rinnova attraverso la morte. A Roma la parodia era momento obbligato del riso sia funebre sia trionfale (l'uno e l'altro erano, naturalmente, cerimonie di tipo carnevalesco)» (ivi, p. 166).
«Nella parodia letteraria angustamente formale dell'età moderna il legame col senso carnevalesco del mondo si spezza quasi del tutto. Ma nelle parodie dell'epoca rinascimentale (in Erasmo, in Rabelais e altri) il fuoco carnevalesco arde ancora: la parodia era ambivalente e sentiva il suo legame con la morte-rinnovazione. Perciò nel seno della parodia poté generarsi uno dei più grandi e insieme dei più carnevaleschi romanzi della letteratura mondiale, il Don Chisciotte di Cervantes» (ivi, p. 167).
3.2 La carnevalizzazione della letteratura
I generi della sfera del serio-comico, «la cui denominazione suona già carnevalescamente ambivalente» rappresentano il corrispondente letterario della cultura carnevalesca del riso. Sin dai tempi del dialogo socratico e della menippea e fino a tutto il Rinascimento,[4] «vetta della vita carnevalesca», un ampio filone letterario è stato influenzato direttamente dal carnevale non soltanto nei contenuti ma anche nella forma di genere.
«A Roma tutte le varietà della satira e dell'epigramma furono collegate anche organizzativamente ai saturnali, si scrivevano per i saturnali o in ogni caso si creavano sotto l'egida delle libertà carnevalesche di questa festa, sancite dalle leggi (ad esempio, tutta l'opera di Marziale è direttamente legata ai saturnali).
Nel Medioevo la vastissima letteratura comica e parodistica nelle lingue nazionali e in latino in un modo o nell'altro era legata alle feste di tipo carnevalesco: col carnevale vero e proprio, con la "festa degli sciocchi", col libero risus paschalis,[5] [con la festa dell'asino][6]ecc. [...] (ivi, p. 168).
«Nel Rinascimento l'elemento carnevalesco abbatté molte barriere e penetrò in molte sfere della vita e della concezione ufficiale. E soprattutto s'impadronì di quasi tutti i generi della grande letteratura e li trasformò sostanzialmente» (M. Bachtin, Dostoevskij..., cit. pp. 168-170).
A partire dal secolo XVII il carnevale si trasforma, diventa una festa in maschera, che perde il senso carnevalesco del mondo e la sua popolarità di piazza. Il carnevale «cessa quasi interamente di essere fonte immediata della carnevalizzazione e cede il proprio posto all'influenza della letteratura già prima carnevalizzata; in tal modo la carnevalizzazione diventa una tradizione puramente letteraria» (ivi, p. 171) e «gli elementi carnevaleschi in questa letteratura, ormai staccata dalla sua fonte immediata, il carnevale, mutano alquanto di forma e di significato» (ivi, p. 172) con un processo analogo alla trasformazione del grottesco di piazza in grottesco da camera.
3.3 Le categorie carnevalesche nel linguaggio letterario
Il carattere delle immagini della letteratura, affine al simbolismo concretamente sensibile del carnevale, ha favorito il passaggio delle categorie carnevalesche nel linguaggio letterario. In particolare la categoria della familiarizzazione «ha favorito la eliminazione della distanza epica e tragica e il trasferimento del raffigurato nella zona del contatto familiare, si è riflessa in modo sostanziale nell'organizzazione dell'intreccio e delle sue situazioni, ha determinato la familiarizzazione della posizione dell'autore rispetto ai personaggi (impossibile nei generi alti), ha introdotto la logica delle mésalliances (mescolanze) e delle riduzioni profananti, infine ha esercitato una potente influenza trasformatrice sullo stile stesso della lingua letteraria. Tutto ciò si manifesta molto chiaramente nella menippea (ivi, pp. 161-62)».
Ma anche i riti accessori del carnevale, «come ad esempio i travestimenti, cioè le sostituzioni carnevalesche di abiti, di posizioni e di sorti della vita, le mistificazioni carnevalesche, le guerre carnevalesche, lo scambio di doni (l'abbondanza come momento dell'utopia carnevalesca), [...] si sono anch'essi trasferiti nella letteratura, conferendo profondità e ambivalenza simbolica ai relativi soggetti e alle relative situazioni narrative oppure gaia relatività e levità carnevalesca e rapidità di sostituzioni.
Ma, naturalmente, quello che ha avuto un'influenza eccezionale sul pensiero artistico-letterario è stato il rito della incoronazione-scoronazione. Esso ha determinato un particolare tipo scoronante di costruzione delle immagini artistiche e di intere opere, in cui la scoronazione ha un carattere sostanzialmente ambivalente e duplice. Se invece l'ambivalenza carnevalesca si dilegua nelle immagini della scoronazione, queste degenerano nella denuncia puramente negativa di carattere morale o politico-sociale, diventano monovalenti, perdono il loro carattere artistico, trasformandosi in mera pubblicistica» (ivi, p. 164).
Ed ancora. «Nella letteratura carnevalizzata la piazza, come luogo in cui si svolge l'azione dell'intreccio, diventa a due piani e ambivalente: attraverso la reale piazza è come se si intravedesse la piazza carnevalesca del libero contatto familiare e delle coronazioni-scoronazioni popolari. Anche gli altri luoghi dell'azione (naturalmente motivati dal punto di vista della realtà e dell'intreccio), se appena riescono ad essere luogo di incontro e di contatto tra gli uomini di diverso genere, vie, taverne, strade, bagni, tolde di navi, ecc., acquistano un significato particolare di piazza carnevalesca (pur con tutto il naturalismo della loro rappresentazione: il simbolismo universale del carnevale non teme alcun naturalismo)» (ivi, p. 168).
4 L'opera di Rabelais e la cultura popolare
Con L'opera di Rabelais e la cultura popolare Bachtin ritorna a trent'anni di distanza da Dostoevskij sul dialogismo, sul senso di incompiutezza della realtà e delle sue interpretazioni, sul perenne rinnovamento e avvicendamento materializzato nel mondo alla rovescia del carnevale e trasposto in letteratura da Rabelais.
E il complesso sistema di segni del mondo alla rovescia del carnevale passato nell'opera di Rabelais consente a Bachtin di aprire una nuova valenza, nello stesso tempo stilistica e semiologica, nell'esplorazione dei rapporti tra l'autore e il suo tempo, tra l'emittente e il destinatario. Ogni autore si muove in un preciso tessuto sociale di comunicazione che rende significativo il sistema di segni adottato. Mittente e destinatario partecipano ugualmente di questo patrimonio suscettibile di orientare il loro rapporto.
Le immagini grottesche dell'opera di Rabelais facevano parte di una pratica sociale ancora assai diffusa nel Rinascimento e potevano quindi trovare un'immediata rispondenza nell'immaginazione del lettore.
Con questo celebre saggio, apparso in Italia nel 1979, Bachtin mette in evidenza il nesso tra la cultura popolare del carnevale e la letteratura. La parodia, il rovesciamento di valori, i riferimenti agli aspetti materiali e corporei della vita, con la loro valenza rigeneratrice, che costituiscono le strutture costanti del riso carnevalesco - espressione, come i saturnali romani, della particolare concezione del mondo della cultura popolare - caratterizzano anche un ricco filone di letteratura - ufficiale e non - che Bachtin percorre nella sua evoluzione dal medioevo fino alle sue manifestazioni più recenti.
In particolare nell'opera di Rabelais avviene la saldatura diretta tra il realismo grottesco della cultura carnevalesca e la letteratura.
5 Realismo grottesco
Grottesco
Forma di rappresentazione fantasiosa e bizzarra che accosta, deformandoli, gli elementi più eterogenei, goffi e marginali della realtà in un coacervo di stili che fan coesistere il comico con il tragico, il serio con lo sberleffo, il riso con il pianto con un effetto stravolgente il comune rapportarsi alle situazioni.
Realismo grottesco
È la definizione con cui Bachtin circoscrive la tradizione comica popolare che trova la sua manifestazione nel principio materiale e corporeo della vita.
Il termine grottesco si riferisce alla imagerie di questa particolare tradizione espressa da immagini di forme vegetali, animali e umane intimamente aggrovigliate, scoperta per la prima volta nel XV secolo nei sotterranei (grotte) delle terme di Tito e chiamata grottesca.
Quanto a realismo perché l’imagerie grottesca «ha avuto un'influenza determinante su tutta la grande letteratura realista dei secoli posteriori» che privata di questo legame è degenerata in «empirismo naturalista».
5.1 Approfondimento
(Vedi M. Bachtin, Rabelais e la cultura popolare del riso, p. 17-18)
Le «immagini del corpo, del mangiare e del bere, dei bisogni naturali, della vita sessuale», attraverso le quali il principio materiale e corporeo prende forma costituiscono l’espressione di una concezione della realtà che attribuisce al comico, e al grottesco nel quale si esprime, una valenza liberatrice e rigeneratrice.
Il grottesco con le sue immagini legate al corpo esprime il divenire nei suoi cicli di vita e di morte, riferito non al singolo individuo ma al popolo nella sua totalità, alla unità e alla inesauribilità dell’esistenza.
Il realismo grottesco ha nutrito fino a tutto il medioevo un copioso filone iconografico e letterario.
«Una delle opere più antiche e più famose di questa letteratura è la Coena Cypriani, travestimento parodico e conviviale di tutta la Sacra Scrittura (Bibbia e Vangelo)».
Liturgie (dei bevitori, dei giocatori...), testamenti (del porco, dell’asino...), preghiere, litanie, inni religiosi costituivano un corpo letterario parodico assai rigoglioso.
«Anche i chierici, gli ecclesiastici d'alto rango e i dotti teologi si concedevano delle gaie distrazioni durante le quali essi abbandonavano la loro serietà religiosa e si dedicavano ai Joca monacorum - come si intitolava una delle opere più famose del Medioevo».
5.2 Il realismo grottesco nella letteratura moderna
Presente ancora nel Rinascimento (Boccaccio, Rabelais, l’Erasmo dell’Elogio della pazzia, Cervantes, Shakespeare, Pulci) [7] il realismo grottesco viene accantonato dalla ripresa dei canoni classici nei secoli XVII e XVIII - anche se non mancano apparizioni in Molière, in Cyrano, nei romanzi filosofici di Diderot e Voltaire, in Swift - per ricomparire nel Romanticismo, attraverso Sterne e il racconto gotico.
Se in Sterne il grottesco getta ancora un ponte verso la componente rigeneratrice e universale della piazza, in seguito si interiorizza, è vissuto in solitudine, diventa un grottesco da camera. Cessa di essere riso allegro e gioioso, perde il principio rigeneratore positivo «e prende la forma di humor, di ironia e sarcasmo». Parallelamente gli spauracchi comici, deformi e strani, che servivano a esorcizzare la paura con il riso, prendono la forma dell’immaginario interiore del racconto gotico e del fantastico romantico (Vedi Bachtin, Rabelais e la cultura popolare del riso, pp. 44-45).
Nel Novecento il grottesco conosce «una nuova e potente rinascita» evolvendo secondo «due linee principali. La prima è il grottesco modernista (Alfred Jarry, i surrealisti, gli espressionisti, ecc.) che è legato (in varia misura) alle tradizioni del grottesco romantico, e attualmente si sviluppa sotto l’influenza delle diverse tendenze esistenzialiste. La seconda linea è quella del grottesco realista (Thomas Mann, Bertolt Brecht, Pablo Neruda, ecc.) che è legata alle tradizioni del realismo grottesco e della cultura popolare e riflette a volte l’influenza diretta delle forme carnevalesche (Pablo Neruda)» (M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare del riso, p. 54).
6 L'Asino d'oro, un esempio di realismo grottesco
Un esempio di realismo grottesco è l'Asino d'oro di Apuleio, che racconta la storia di un certo Lucio trasformato in asino.
Se una delle caratteristiche del realismo grottesco è l'intreccio di forme umane con forme animali, cosa c'è di meglio della descrizione della metamorfosi di Lucio in asino (Le metamorfosi è il titolo originale) o di quando una matrona di rango copula con Lucio-asino.
Senza contare che il corteo che apre l'ultimo libro è la descrizione di quel che doveva essere il carnevale raccontato da Bachtin e che tra l'altro suggerisce l'etimologia più credidibile di “carnevale”, che deriva dal “carrus navalis” che alla fine dell'inverno portavano in giro per la città, donde la tradizione dei carri tuttora diffusa nei nostri carnevali.
Eros al femminile ripercorre le vicende di Lucio mettendo in risalto il legame con la tradizione grottesca, più che quella mistica come vuole l'interpretazione tradizionale.
[1] Bachtin si avvale della caratterizzazione di Grossman per definire il principio della eterogenea composizione romanzesca di Dostoevskij: «Combinare in un'unica creazione artistica le confessioni filosofiche e le avventure criminali, includere il dramma religioso nella trama del racconto d'appendice, condurre attraverso tutte le peripezie del romanzo d'avventure verso le rivelazioni di un nuovo mistero. [...]
Ecco perché Il libro di Giobbe, la Rivelazione secondo san Giovanni, i testi evangelici, lo Slovo di Simeon Novyj Bogoslov, tutte cose che nutrono le pagine dei suoi romanzi e dànno il tono a certi suoi capitoli, si uniscono qui originalmente col giornale, la facezia, la parodia, la scena di strada, il grottesco o perfino il pamphlet» (v. M. Bachtin, L'opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, trad. it. Mili Romano, Einaudi, 1979, p. 23).
[2] Sotie: satira dialogata del teatro francese del XV e dell'inizio del XVI secolo, i cui personaggi appartengono a un immaginario «popolo degli stolti o dei folli» che rappresenta allegoricamente il mondo reale (Bachtin, Rabelais e la cultura popolare del riso, p. 7, nota 2).
[3] La «decomposizione dell'assetto feudale e teocratico del Medioevo» e «lo spostamento della letteratura e di determinati settori dell'ideologia verso le lingue popolari» interrompeva la delimitazione tra la letteratura ufficiale e quella della tradizione serio-comica (v. Bachtin, Rabelais e la cultura popolare del riso, cit., p. 82).
[4] La «decomposizione dell'assetto feudale e teocratico del Medioevo» e «lo spostamento della letteratura e di determinati settori dell'ideologia verso le lingue popolari» interrompeva la delimitazione tra la letteratura ufficiale e quella della tradizione serio-comica (v. M. Bachtin, L'opera di Rabelais e la cultura popolare, cit., p. 82).
[5] Riso pasquale:
«Durante i giorni di Pasqua la tradizione permetteva che si ridesse in chiesa. Il predicatore dal pulpito si permetteva scherzi licenziosi e storielle allegre per suscitare tra i parrocchiani il riso, inteso come gioiosa rinascita dopo i giorni di afflizione e di digiuno. Moltissimi travestimenti parodici del medioevo sono direttamente o indirettamente legati a questo risus paschalis. Non meno produttivo era il risus natalis che, a differenza del risus paschalis, si esprimeva non in racconti, ma in canzoni. I solenni inni ecclesiastici erano cantati su motivi di canzoncine da trivio e in tal modo erano riaccentuati. Nello stesso tempo fu creata una quantità enorme di canti di Natale, dove la tematica sacra della natività s'intrecciava coi motivi popolari della gaia morte del vecchio e della nascita del nuovo» (M. Bachtin, Estetica e romanzo, p. 435).
[6] La festa dell'asino, come la festa dei folli e il risus paschalis, «è una delle espressioni più chiare e pure del riso festoso gravitante attorno alla chiesa del Medioevo».
Si celebrava «in ricordo della fuga in Egitto, sull'asino, di Maria col piccolo Gesù. Ma al centro della festa non c'era né Maria né Gesù, (sebbene apparisse una ragazza con un bambino), ma invece l'asino e il suo grido "hi-ho!". Si celebravano anche delle "messe dell'asino". Ci è pervenuto un esempio di tale messa redatto dall'austero ecclesiastico Pierre de Corbeil. Ogni parte della messa era accompagnata da un comico grido d'asino, "hi-ho!". Alla fine della messa il prete, al posto della benedizione tradizionale, ragliava per tre volte come un asino, e al posto dell'"amen" per tre volte gli veniva risposto con un grido d'asino. L'asino è uno dei simboli più antichi e più duraturi del "basso" materiale e corpreo, che ha nello stesso tempo un valore abbassante (di mortificazione) e rigenerante. Basta ricordare l'Asinus aureus di Apuleio, i mimi dell'asino, diffusi durante l'antichità, e infine la figura dell'asino come simbolo del principio materiale e corporeo nelle leggende su San Francesco d'Assisi. La festa dell'asino è una delle varianti di questo motivo tradizionale estremamente vecchio» (M. Bachtin, L'opera di Rabelais e la cultura popolare, cit., pp. 88-89).
[7] Il diretto vicinato della morte col riso, il mangiare, il bere, le licenze sessuali lo ritroviamo anche in altri rappresentanti del Rinascimento: in Boccaccio (già nella novella che fa da cornice e nel materiale di singole novelle), nel Pulci (la raffigurazione delle morti e del paradiso durante la battaglia di Roncisvalle; Margutte, prefigurazione di Panurge, muore dal ridere) e in Shakespeare (le scene falstaffiane, gli allegri becchini dell’AmIeto, il portinaio allegro e sbronzo nel Macbetb). L’affinità si spiega con l’unità dell’epoca e la comunanza delle fonti e delle tradizioni, e le differenze si spiegano con la vastità e la pienezza di elaborazione di questi vicinati (M. Bachtin, Estetica e romanzo, p. 346).
Voci correlate
La presente pagina fa parte di un ipertesto sulle Lezioni americane di I. Calvino e sulle Metamorfosi di Apuleio.