1 Melanconia
Il termine, indicante nella fisiologia antica un carattere con alterazioni psichiche, è passato a significare, attraverso una fittissima rete di sfumature, una dolce e delicata tristezza e, nell’accezione comune di malinconia, uno stato d'animo causato da pensieri o presentimenti tristi.
Da melas (melanos), nero e cholé, bile.
2 Evoluzione del concetto di melanconia
2.1 La melanconia nell’antica fisiologia
Secondo l’antica fisiologia la tipologia umana e la salute dipendono dalla combinazione di quattro umori (sangue, bile gialla, flegma, bile nera), collegati ai quattro elementi (aria, fuoco, acqua, terra - con le rispettive qualità di secco, caldo, umido, freddo) e a quattro pianeti (Giove, Marte, Luna, Saturno).
Le combinazioni degli umori permettono di classificare quattro disposizioni: il sanguigno - gioviale, attivo, fiducioso, uomo di successo; il collerico, suscettibile e scontroso; il flemmatico, tranquillo; il melanconico, triste, sfortunato, condannato alle occupazioni più umili.
Ad un aumento esorbitante della bile nera si associava una patologia talmente nota e tipica (dalla paura, alla misantropia, alla depressione fino alla pazzia) da essere indicato con una sola parola: melanconia, melanconia come malattia.
2.2 Melanconia come temperamento
Nel IV sec. a. C. la rilettura dei miti in chiave razionalistica aveva portato a individuare tratti di melanconia patologica in eroi puniti con la pazzia da divinità da loro offese; ma il fascino per Ercole, Aiace, Bellerofonte era tale che la melanconia diventa una specie di malattia degli eroi.
Da qui la nozione della bile nera come qualcosa sì di anormale, ma in senso neutro, suscettibile di sviluppi in un senso o in un altro e nel particolare equilibrio tra il troppo caldo e il troppo freddo nella condizione eccezionale (ossia nel furor) dei grandi uomini. È la nozione di melanconia come temperamento: il temperamento degli eroi e dei grandi uomini.
2.3 Melanconia poetica: la tristezza diventata leggera
Alla melanconia come stato d’animo temporaneo della poesia tardomedievale, ibrida figura ai confini tra la Tristezza e la melanconia della tradizione colta, subentra una nozione, alleggerita dagli aspetti più foschi, che incontrandosi con la melanconia generosa diventa un'accentuata coscienza di sé, talora intrisa come in Cervantes e Shakespeare di humour.
2.4 Melanconia come stato d’animo temporaneo
Nella poesia tardo medioevale l’assunzione della nozione di melanconia della tradizione colta tra gli strati della borghesia cittadina aveva portato, come succede quando i termini passano da un piano semantico ad un altro, all’introduzione di un nuovo concetto di melanconia: melanconia come uno stato temporaneo dell’animo. In questo modo accanto alla melanconia come temperamento e alla melanconia come malattia propri dell’uso alto del termine, nasce una nozione che indica uno stato soggettivo dell’animo, che, attraverso una particolare modulazione percettiva, può estendersi al di fuori dell’io per indicare un paesaggio melanconico, un quadro melanconico, una musica melanconica. In questo modo nella letteratura più attenta a rappresentare la sensibilità umana, fa il suo ingresso la melanconia poetica, personificata con il profilo iconologico della Tristezza (una vecchia scarmigliata, pallida, rugosa, dai panni miseri) integrato dal viso scuro e dallo sguardo a terra della melanconia della tradizione colta.
2.5 Melanconia come accentuata coscienza di sé
L’ibrida figura della melanconia come stato d’animo attraverso un processo concomitante al recupero del temperamento melanconico nel pensiero rinascimentale, ma seguendo percorsi originari, viene progressivamente alleggerita dai suoi aspetti foschi secondo un processo di capovolgimento che tramuta le caratteristiche originariamente negative della Tristezza-Melanconia in qualità: in tal modo il viso scuro è un’illusione della vista umana incapace di reggere la luminosità di quel volto, l’essere schivo non è misantropia, ma amore per lo studio, lo sguardo fisso a terra è la concentrazione, la pensosità di chi ha raggiunto attraverso l’affinamento della sensibilità la consapevolezza di sé.
In questo modo l’afflizione della Tristezza-Melanconia, della quale il melanconico riuscirà anche a compiacersi, è indice di consapevolezza della sua condizione e più ampiamente della condizione umana: della vita e della morte, del finito e dell’infinito, del tempo e dell’eternità, dell’essere e del non essere...
La Tristezza diventata leggera può ora incontrarsi con i paralleli sviluppi della melanconia generosa del genio ispirato, «nel senso che il valore emozionale dello stato d’animo sentimentale e gradevole poteva essere arricchito dal valore intellettuale della melanconia contemplativa o artisticamente produttiva» (Klibansky, Panofsky, Saxl, Saturno e la melanconia, Einaudi, 1983, p. 228).
3 Quella speciale connessione tra melanconia e umorismo
La sintesi più densa dei temi diffusi attorno alla melanconia avviene nella Spagna di Cervantes e nell’Inghilterra di Shakespeare dove la malinconia poetica si trasfigura in «una condizione che attraverso la tensione continuamente rinnovata tra depressione ed esaltazione, infelicità e autosufficienza, orrore della morte ed accresciuta coscienza di vivere, ha potuto imprimere una nuova vitalità al dramma, alla poesia e all’arte» (p. 221).
Spagna e Inghilterra
furono e rimasero il vero regno di questa melanconia specificamente moderna, consapevolmente coltivata: a lungo lo “spagnolo melanconico” fu altrettanto proverbiale dell’“inglese splenetico”. La grande poesia in cui si espresse maturò nello stesso periodo in cui si ebbe l’affermarsi di un genere specificamente moderno di umorismo colto, un atteggiamento che sta in ovvio rapporto con la melanconia. Sia il melanconico che l’umorista si nutrono della contraddizione metafisica tra finito e infinito, tempo ed eternità, o comunque si voglia chiamarla. Entrambi hanno in comune la caratteristica di ottenere insieme piacere e dolore dalla coscienza di questa contraddizione. Il melanconico soffre anzitutto della contraddizione tra tempo e infinito, pur attribuendo, contemporaneamente, un valore positivo al suo dolore sub specie aeternitatis, in quanto sente che proprio attraverso la sua melanconia partecipa dell’eternità. L’umorista invece è anzitutto divertito della stessa contraddizione, ma nello stesso tempo depreca il suo divertimento sub specie aeternitatis, in quanto si rende conto di essere incatenato per sempre alla realtà temporale. Di qui si può comprendere come nell’uomo moderno l’umorismo, col suo senso della limitazione dell’Io, si sia sviluppato insieme con quella melanconia che aveva finito con l’essere un senso esaltato dell’Io [la melanconia generosa]. Anzi, si poteva fare dell’umorismo sulla melanconia stessa, e così facendo evidenziarne anche di più gli elementi tragici. Ma si comprende anche come, una volta che questa forma di melanconia venne ad essere chiaramente definita, il frivolo uomo di mondo se ne sia servito come di un facile mezzo per nascondere la sua vacuità e, così facendo, abbia prestato il fianco alla derisione, in fondo altrettanto facile, dell’autore di satire.
In questo modo, accanto al melanconico tragico come Amleto, si ebbe sin dagli inizi la figura comica del “melanconico alla moda” come lo Stephen di Every Man in his Humour,[1] che voleva “imparare” la melanconia come s’impara un gioco o un ballo: “Avete uno sgabello per starci seduto melanconicamente?... Cugino, va bene? Sono melanconico abbastanza?”. Però la sintesi più perfetta di pensiero profondo e tristezza poetica si ha quando il vero umorismo viene reso più intenso dalla melanconia; o, rovesciando il discorso, quando la vera melanconia è trasfigurata dall’umorismo: cioè quando uno che a prima vista si giudicherebbe un ridicolo melanconico alla moda è invece un vero melanconico nel senso tragico, salvo che è abbastanza saggio da farsi gioco del suo Welschmerz in pubblico, creandosi così un’armatura per proteggere la sua sensibilità (Klibansky, Panofsky, Saxl, Saturno e la melanconia, Einaudi, 1983, pp. 221-222).
4 Ulteriori sviluppi
La pienezza di tale sintesi, realizzata in Shakespeare, si disperde in quanto la linea melanconica (Milton, Gray, Keats )[2] rinuncia «al progetto profondo ed ingegnoso di nascondere il volto tragico sotto una maschera comica» (p. 223) preferendo modulare tutti gli aspetti accessibili del melanconico (estatico, contemplativo, saturnino, musicale, apollineo, profetico, idilliaco), che ne esaltavano la sensibilità.
Ai margini una melanconia convenzionalmente ispida arricchiva «la scena poetica di tante rovine gotiche, di tanti cimiteri, corvi notturni, cipressi, tassi, ossari e spettri» da scadere in un arido sentimentalismo scherzosamente catalogato nei suoi ingredienti.
La vera malinconia è ormai svanita dagli scenari di rovine, volte e chiostri; si trova ora, ad esempio, nello spirito amaro delle lettere tarde di Lessing, o nello stile volutamente frammentario di Sterne, che altro non è che un simbolo dell’eterna, tragicomica incompletezza dell’esistenza in sé. La si può cogliere in quelle regioni dello spirito esplorate da Watteau[3] e Mozart in cui realtà e fantasia, appagamento e rinunzia, amore e solitudine, desiderio e morte presentano una somiglianza così stretta che l’espressione consueta del dolore e della pena difficilmente si può usare tranne che in forma parodistica.
«Agli inizi dell'Ottocento sorse però un nuovo tipo di melanconia da questo strano dualismo fra una tradizione esaurita e l’espressione spontanea e intensamente personale di un profondo dolore individuale, cioè la melanconia “romantica”. Questa era essenzialmente “sconfinata” sia nel senso di incommensurabile, sia in quello di indefinibile, e proprio per questo non si limitava a crogiolarsi nell’autocontemplazione, ma cercava ancora una volta, per “realizzarsi”, la concretezza della comprensione diretta e l’esattezza di un linguaggio preciso. Questa melanconia scontrosa e vigile, che proprio dalla sua aspirazione all’eterno era portata più vicino alla realtà in un senso nuovo, si potrebbe definire come una forma virile del Welschmerz romantico, di contro al tipo femmineo, assai più comune, che si era ridotto ad essere semplice sensibilità più o meno insignificante. Si comprende quindi che Keats, nella sua Ode on Melancholy, dovesse distruggere in un sol colpo tutta quanta la convenzione e recuperare il significato originario dell’emozione melanconica [ritornando] di nuovo alla precisione delle antitesi e alla stravaganza mitologica dei grandi elisabettiani (Klibansky, Panofsky, Saxl, Saturno e la melanconia, pp. 223-224).
Verso la fine del secolo il Welschmerz che agli inizi aveva «contribuito alla grande e realmente tragica poesia dell’epoca (ad esempio, l’opera di Hölderlin» (p. 226) diventa il distruttivo, morboso Welschmerz dei decadenti.
5 La melanconia generosa
Il Rinascimento nel clima di recupero delle influenze astrali in sé tutte buone e in particolare nel recupero di Saturno, astro della melanconia, riprendendo la teoria pseudoaristotelica del furore eroico, elabora la nozione di melanconia ispirata o «melancholia generosa», ossia la capacità del genio di essere guidato dai demoni inferiori nelle arti manuali (pittura, architettura...), di essere edotto dai demoni astrali nelle attività della ragione (filosofia, fisica, oratoria...) e dai demoni superiori essere messo a parte dei segreti delle cose divine (la legge di Dio, le gerarchie angeliche, eventi futuri...).
La nozione di melanconia come forza intellettuale si sviluppò indipendentemente dalla melanconia poetica: l’incontro avvenne «nel senso che il valore emozionale dello stato d’animo sentimentale e gradevole poteva essere arricchito dal valore intellettuale della melanconia contemplativa o artisticamente produttiva» (p. 228), ma le due nozioni si svilupparono ciascuna per conto proprio.
La derivazione della melanconia ispirata dalla tradizione ermetico-cabbalistica ne fece condividere le vicissitudini quando a partire dagli ultimi decenni del XVI sec. l’ossessione per la stregoneria inizia a ravvisare nella melanconia la strega in adorazione del diavolo nel sabba.[4]
[1] Ben Jonson (1572-1637), Every Man in his Humour, atto III, scena I, commedia in versi (1608).
[2] John Milton (1608-1674), poeta inglese.
Thomas Gray (1716-1771), poeta britannico.
John Keats (1795-1821), poeta britannico.
[3] Watteau Jean-Antoine (1684-1721) pittore francese.
[4] Convegno settimanale notturno, a cui le streghe giungevano volando, per adorare il diavolo.
Voci correlate
La presente pagina fa parte di un ipertesto sulle Lezioni americane di I. Calvino e sulle Metamorfosi di Apuleio.