1 Etimologia
Voce inglese proveniente dal francese humeur, dal latino humor che indicava i fluidi, gli umori (sangue, flemma, bile gialla, bile nera) dai quali secondo la teoria classica (Ippocrate) dipendeva il carattere.
Nel XVII sec. non tanto nel senso indifferenziato di carattere, ma in quello specifico di temperamento gioioso e giocoso.
2 Umorismo
Termine impiegato sia nel significato di humour, che per indicare genericamente l'area del comico e del riso.
Una definizione dell'umorismo, come humour, è data da Pirandello (L'umorismo, 1908) che distingue tra il "comico" come avvertimento del contrario e l'"umorismo" come sentimento del contrario.
Mentre il comico - scoprendo le sfasature, le incongruità, le contraddizioni del vivere e della realtà (le maschere dietro cui ci si nasconde) - libera il riso, l'umorismo interviene a smorzarlo, suscitando comprensione e partecipazione verso il dramma che la maschera serve a nascondere.
3 Il comico che ha perso la pesantezza corporea...
La «gaia relatività»
Il principio che unifica e interpreta le espressioni della cultura popolare del riso è il pathos ambivalente della «gaia relatività» e del trionfo della totalità onnicomprensiva della vita che sopravanza sulla morte.
«L'abbassamento di ciò che è alto» non possiede nel mondo alla rovescia del carnevale e nelle forme di riso cultuale[1] e parodico una valenza valutativa. L'alto è il cielo, il basso è la terra, la terra della tomba, ma nello stesso tempo della rigenerazione e della vita. L'alto è il volto; «il basso gli organi genitali, il ventre e il deretano».
Il basso è la zona della terra che rigenera, è la zona del ventre, del cibo, del bere e della riproduzione, la zona del rinnovamento. Il basso non esprime una valenza negativa. La bestemmia rituale porta la divinità nella zona della terra e della rigenerazione, la invita a rinnovarsi.
Tutto è relativo, tutto finisce e tutto si rinnova: la vita nella sua onnicomprensività (non la vita angustamente individuale) continuamente si rinnova e avanza sulla morte. Per questo vita e morte nella imagerie grottesca sono contigue: non c'è resurrezione, non c'è nuova vita, senza morte. Per questo la morte, la relatività è gaia.
Il mangiare, il bere, la sessualità, la «dimensione della carnalità umana» di Boccaccio e Rabelais reinterpreta questa valenza della terra, del ventre, del rinnovamento: la gaia atmosfera sopravanza sulla peste e sulla morte e trionfa la vita.
Il riso carnevalesco «è la festa del tempo che tutto distrugge e tutto rinnova» (M. Bachtin, Estetica e romanzo, p. 162). Il riso carnevalesco e le espressioni letterarie del serio-comico che l'hanno raccolto, sulla cui linea si collocano Boccaccio e Rabelais, interpretano la precarietà della vita, la limitatezza di ogni sistema di valori, di ideologie, di assetti, che si vogliono onnicomprensivi e definitivi e assoluti. Il riso disgrega questo senso di pienezza e di totalità. È un riso gioioso, festoso, rigeneratore, che trascende l'individualità.
Il riso alleggerito
Nel Rinascimento il riso popolare confluisce nella letteratura, si allea «con le idee più avanzate dell'epoca, col sapere umanistico, con le più elevate tecniche letterarie» diventa «espressione di una nuova coscienza storica, libera e critica, dell'epoca» (M. Bachtin, L'opera di Rabelais e la cultura popolare, pp. 82 e 83). La «carnalità» di Rabelais disgrega l'impianto asfittico di una società e di una cultura sclerotizzate dalla scolastica.
Nella nuova dimensione della dignità umana delineata dall'Umanesimo l'uomo si stacca dalla dimensione universalistica del medioevo, diventa cosciente della sua individualità, si sente «responsabile solo di fronte a se stesso e al suo spirito» (E. Panofsky, Saturno e la melanconia, p. 231).
Nell'interiorità dell'io l'uomo prende coscienza della sua provvisorietà, della sua limitatezza, della sua caducità. La affronta con la forza rigeneratrice del riso che mantiene la capacità di indagare il senso della vita e della morte, di accedere agli «aspetti estremamente importanti della realtà» (M. Bachtin, L'opera di Rabelais e la cultura popolare, p. 82 e 83), ma, vissuto in privato, nell'isolamento dell'io perde la platealità gioiosa e carnale della festa da piazza. Si interiorizza, si alleggerisce, si trasforma in sorriso che indaga le sottili pieghe dell'essere alle prese con il senso dell'esistenza individuale. In ciò consiste il dramma di Cervantes e di Shakespeare (e poi di Sterne): «il dramma del corpo e degli oggetti sottratti all'unità con la terra che genera e con il corpo universale che cresce e si rinnova continuamente, a cui erano legati nella cultura popolare». In questo consiste la melanconia di Amleto.
L'humour, la nuova forma di riso colto, il riso alleggerito consente di guardare alla propria finitezza con distacco, di trattarla come un oggetto esterno. L'humour, come il riso carnevalesco disgrega la compattezza del mondo, lo libera da ogni dogmatismo.
Per questo «melanconia e humour mescolati e inseparabili» segneranno il percorso dell'uomo moderno.
Il fantastico romantico scoprirà il «mondo interiore e soggettivo dell'individuo, con la sua profondità, complessità e inesauribilità» (M. Bachtin, L'opera di Rabelais e la cultura popolare, p. 52), ma la sua scoperta «è stata possibile soltanto grazie all'uso che essi [i romantici] hanno fatto del metodo grottesco, con la sua forza capace di liberare da ogni dogmatismo, da ogni compiutezza e limitatezza». Per questo i romantici scavalcando la compattezza del razionalismo illuminista ritorneranno attraverso Sterne alla melanconia di Cervantes e di Shakespeare.
4 ... e mette in dubbio l'io e il mondo
La carnevalizzazione della cultura umanistica, documentata dall'irruzione del riso popolare nella letteratura, non può essere ricondotta al vezzo indulgente e bonario del dotto verso la ingenuità sempliciotta della piazza, né può trovare esauriente spiegazione nella con-fusione di culture indotta da una progressiva labilità di confini tra lingua dotta e lingua parlata.
Piuttosto la globale reimpostazione della dimensione umana che rivaluta aspetti dimenticati trascurati o negati, riscopre nel riso la capacità di interpretare la vita al pari del serio, trovando nell'imagirie grottesca, dove tale funzione non era mai venuta meno, una fonte inesauribile di immagini.
L'incontro con il riso carnevalesco risponde alla rivalutazione di una funzione già riconosciuta dalla cultura classica e ricacciata ai margini da una tradizione cristiana ostile alle manifestazioni del comico.[2]
Le elaborazioni teoriche dell'umanesimo che attribuiscono al riso «il valore di forma universale nella concezione del mondo» si basano «quasi esclusivamente su fonti antiche» (M. Bachtin, Rabelais e la cultura popolare, p. 77).
La funzione terapeutica del riso attribuita ad Ippocrate, la celebre formula aristotelica («fra tutti gli esseri viventi, solo l'uomo conosce il riso») legata al «potere dell'uomo su tutto il mondo» e all'esclusivo possesso umano di ragione e spirito, l'affermazione di Plinio «che un solo uomo al mondo, Zoroastro, aveva cominciato a ridere sin dalla nascita, e ciò aveva fatto pensare a un presagio sulla sua saggezza divina», le opere di Luciano che stabiliscono «il legame del riso con l'inferno (e la morte), con la libertà di spirito e di parola» erano le fonti più diffuse della filosofia del riso che circolavano nell'ambiente umanistico e letterario. Tutte concordano sul riso «come principio universale su cui si fonda una concezione del mondo, che fa guarire e rigenera, profondamente legato ai problemi filosofici ultimi, cioè al problema di «come orientare la vita e la morte» (Cfr. M. Bachtin, Rabelais e la cultura popolare, pp. 77-80).
Ecco perché «nel Rinascimento il riso, nella sua forma più radicale, universale - che inglobava, per così dire, il mondo intero - e al tempo stesso nella sua forma più gioiosa, una sola volta nel corso della storia, per circa cinquanta o sessant'anni (in momenti diversi a seconda dei paesi), si staccò dalle viscere del popolo con le sue lingue popolari ("volgari") per fare irruzione nella letteratura e nell'ideologia di rango elevato, ed avere un ruolo decisivo nella creazione di capolavori della letteratura mondiale, quali il Decamerone di Boccaccio, l'opera di Rabelais, il romanzo di Cervantes, i drammi e le commedie di Shakespeare, ed altre opere» (M. Bachtin, Rabelais e la cultura popolare, p. 81).
I processi di rielaborazione letteraria dell'imagerie grottesca e del principio materiale e corporeo hanno progressivamente alleggerito il riso dalla carnalità della piazza, trasformandolo in ironia e humour, ne hanno progressivamente spento l'ambivalenza (abbassamento e rigenerazione: la parodia carnevalesca non è mai distruttiva come l'ronia moderna) ma non ne hanno diminuita la capacità di interpretare il senso della vita, anche ai tempi nostri, come in tante occasioni, tra altri, Calvino ha saputo dimostrare.
[1] Vedi il risus paschalis e la messa dell'asino, la festa dei folli.
[2] «Già il cristianesimo delle origini (nell'antichità) condannava il riso. Tertulliano, Cipriano e San Giovanni Crisostomo insorsero contro le antiche forme di spettacolo, e in particolare contro il mimo e contro il riso e gli scherzi dei mimi. Giovanni Crisostomo dichiara francamente che gli scherzi e il riso non vengono da Dio ma dal diavolo, il cristiano deve osservare una costante serietà, la penitenza e il dolore per i suoi peccati» (M. Bachtin, Rabelais e la cultura popolare, p. 84).
Durante il medioevo l'atteggiamento non era mutato come ben dimostra anche Il nome della rosa il cui intreccio si svolge proprio attorno alla problematica del riso.
Voci correlate
La presente pagina fa parte di un ipertesto sulle Lezioni americane di I. Calvino e sulle Metamorfosi di Apuleio.