Calvino e il postmoderno
È luogo comune accostare non solo l’ultimo Calvino, il Calvino di Se una notte d’inverno un viaggiatore, ma più in generale il secondo Calvino, il Calvino della svolta, delle Città invisibili, del Castello dei destini incrociati al postmoderno. Non ci arrampicheremo sui vetri per il gusto del Martin contrario. Calvino stesso non ha mancato di dare adito a tale impressione e caso volle che le Lezioni si chiudessero sul Calvino della riscrittura, dell'intertestualità, del citazionismo, della combinazione, dell'esibizione della finzione narrativa.
Ma davvero al titanico volo di Perseo che apre la Leggerezza, impegnato a domare una realtà labirintica, fa da contrappunto a chiusura delle Lezioni un Calvino della crisi dei valori, del disimpegno, del pessimismo gnoseologico, un Calvino arreso al postmoderno?
Certo, Calvino, attento alla realtà in movimento, polimorfa, magmatica ha accolto nella sua letteratura le istanze del tempo e le ha rese con soluzioni stilistiche originali, che sono lì da vedere. Per questo possiamo accostare Calvino al postmoderno. “Accostare”, non “assimilare” tout court. Perché assimilare Calvino al postmoderno sarebbe come dire che Leopardi è romantico perché tratta dell’infinito.
Calvino, come ha disegnato una posizione distanziata, «picaresca», «antieroica» rispetto agli imperativi categorici della sua prima letteratura o come ha saputo sciacquare il suo surrealismo, il suo strutturalismo o la sua partecipazione all’Oulipo in acque incontaminate dalle mode, ha forgiato il suo post-modernismo con sembianze specifiche, defilate rispetto alle etichette, non tanto per avere reinterpretato in modo originale le tecniche narrative, ma specialmente perché come negli anni dell’engangement non si era arreso al labirinto, così negli anni del “disimpegno” non si è arreso al groviglio.
Lo ha dimostrato sin dal tempo della riscrittura del Conte di Montecristo. L’Edmon Dantes di Calvino, pur essendo consapevole dell’impossibilità di uscire dalla fortezza, alias dell’impossibilità di ridurre a ragione la realtà, non rinuncia a progettare di evadere dalla prigione.
Se riuscirò col pensiero a costruire una fortezza da cui è impossibile fuggire, questa fortezza pensata o, sarà uguale alla vera - e in questo caso è certo che di qui non fuggiremo mai; ma almeno avremo raggiunto la tranquillità di chi sa che sta qui perché non potrebbe trovarsi altrove — o sarà una fortezza dalla quale la fuga è ancora più impossibile che di qui — e allora è segno che qui una possibilità di fuga esiste: basterà individuare il punto in cui la fortezza pensata non coincide con quella vera per trovarla.[1]
Non c’è decostruzionismo in Calvino, piuttosto c’è lo scetticismo, lo “scetticismo attivo” della ragione (Cfr. A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, alle pp. 540-564 — riportato in parte qui sotto: "L'arcano del Bagatto" — e alla voce “Scetticismo attivo”), che senza illusioni non rinuncia a conoscere la realtà.
Lo scetticismo di Flaubert, insieme con la sua curiosità infinita per lo scibile umano accumulato nei secoli, sono le doti che verranno fatte proprie dai più grandi scrittori del secolo XX; ma per loro parlerei di scetticismo attivo, di senso del gioco e della scommessa nell'ostinazione a stabilire relazioni tra i discorsi e i metodi e i livelli. La conoscenza come molteplicità è il filo che lega le opere maggiori, tanto di quello che viene chiamato modernismo quanto di quello che viene chiamato il postmodern, un filo che — al di là di tutte le etichette — vorrei continuasse a svolgersi nel prossimo millennio.[2]
L’arcano del bagatto
Riportiamo le pp. 540-544 di Tra il cristallo e la fiamma.
Nell’Introduzione a una scelta di saggi di Queneau, Segni, cifre e lettere, Calvino traccia un profilo dello scrittore d’oltralpe che si perde in Flaubert.
Senza più la perentorietà della giovinezza, con quel tono di discrezione e possibilismo che sarà caratteristico della sua maturità, Queneau s’identifica con l’ultimo Flaubert e sembra riconoscere in quel libro [Bouvard et Pécuchet] la propria odissea attraverso il «falso sapere», attraverso il «non concludere», alla ricerca d’una circolarità del sapere, guidato dalla bussola metodologica del suo scetticismo.[3]
La scienza scettica, riservata, metodica, prudente, umana che Queneau vede in Flaubert è la scienza che Calvino vede in Queneau.
Queneau e Flaubert per Calvino sono figure speculari come le carte dei tarocchi, tanto da riuscirgli naturale far rimbalzare il nome di Queneau sul Flaubert della Molteplicità, a illustrarne l’atteggiamento verso la scienza. Scienza di Flaubert e scienza di Queneau, attraversate dallo stesso senso del limite e del capovolgimento, sono per Calvino intercambiabili come mondo e libro romantici. Per questo viaggiano insieme come Bouvard e Pécuchet.
La Molteplicità ripropone lo stesso groviglio di scatole cinesi dell’Introduzione a Segni, cifre e lettere dove Calvino per parlare di Queneau cita Queneau che parla di Flaubert. L’Introduzione è una subroutine della Molteplicità. Essa, rinviando al saggio con cui Queneau difende Flaubert «dalla semplicistica definizione di “avversario della scienza”», indica la mappa dello scetticismo di Flaubert e porta allo scoperto che le coppie oppositive fissate sull’onda della metaforologia di Blumenberg traducono un’intuizione già balenata attorno agli sberleffi di Queneau.
Il “sapere” di Queneau è caratterizzato da un’esigenza di globalità e nello stesso tempo dal senso del limite, dalla diffidenza verso ogni tipo di filosofia assoluta.[4]
Globalità e limite, assoluto e diffidenza sono varianti di enciclopedia e nulla, di assoluto e vuoto: sono i poli della scienza di Flaubert. Anzi meglio sarebbe rovesciare il ragionamento e dire che enciclopedia e nulla, assoluto e vuoto della Molteplicità traducono gli spazi diglobalità e limite definiti nel profilo di Queneau. Un profilo tracciato nel 1981, coevo a Die Lesbarkeit der Welt di Blumenberg, giunto però in Italia tre anni più tardi. Globalità, limite, diffidenza, assoluto - il nodo di idee che serve a definire Queneau e con lui Flaubert - è orchestrato da Calvino ancor prima di incontrare le polarità della leggibilità romantica nel libro di Blumenberg.
Siamo alle solite. Calvino non cavalca la moda o la novità. La cattura se consente lo sviluppo di un pensiero che ha già nei cromosomi. Per questo può piegare al suo ragionamento l’«affascinante» libro di Blumenberg, avendo già intrecciato attorno a Queneau e Flaubert un groviglio di assoluto e nulla, di universo e vuoto.
Ancora il rinvio all’introduzione a Segni, cifre e lettere spiega di che pasta è fatto il ponte gettato tra lo scetticismo di Flaubert e la «conoscenza come molteplicità» che è il filo che al di là delle etichette di modernismo o postmodern «vorrei continuasse a svolgersi nel prossimo millennio»: lo «scetticismo attivo», il «senso del gioco e della scommessa nell'ostinazione a stabilire relazioni tra i discorsi e i metodi e i livelli».
L’ideale che si sono costruiti gli scienziati nel corso di tutto questo inizio di secolo è stato una presentazione della scienza non come conoscenza ma come regola e metodo. Si dànno delle nozioni (indefinibili), degli assiomi e delle istruzioni per l’uso, insomma un sistema di convenzioni. Ma questo non è forse un gioco che non ha nulla di diverso dagli scacchi o dal bridge? Prima di procedere nell’esame di questo aspetto della scienza, ci dobbiamo fermare su questo punto: la scienza è una conoscenza, serve a conoscere? E dato che si tratta (sin questo articolo) di matematica, che cosa si conosce di matematica? Precisamente: niente. E non c’è niente da conoscere. Non conosciamo il punto, il numero, il gruppo, l’insieme, la funzione più di quanto conosciamo l’elettrone, la vita, il comportamento umano. Non conosciamo il mondo delle funzioni e delle equazioni differenziali più di quanto “conosciamo” la Realtà Concreta Terreste e Quotidiana. Tutto ciò che conosciamo è un metodo accettato (consentito) come vero dalla comunità degli scienziati, metodo che ha anche il vantaggio di connettersi alle tecniche di fabbricazione. Ma questo metodo è anche un gioco, più esattamente quello che si chiama un jeu d’esprit. Perciò l’intera scienza, nella sua forma compiuta, si presenta e come tecnica e come gioco. Cioè né più né meno di come si presenta l’altra attività umana: l’Arte.[5]
Non sono parole di Calvino ma di Queneau che Calvino adotta senza remore.
Ciò non significa essere contro la scienza rilevarne i limiti o la valenza fantasmatica, bensì aggiungere un libro bianco sullo scaffale della biblioteca, un libro che mostra la parte non scritta o non scrivibile della scienza, le sue radici affondate nel profondo e le sue connessioni con il senso comune e gli apparati del potere. Anche la scienza si protende nelsinus inexplebilis dello spiritus phantasticus e la logica, «l’assiomatizzazione del pensiero»[6] che la orienta, poggia sulle stesse strutture della fantastica, la logica della fantasia auspicata da Rodari.
Le pagine bianche aggiungono all’enciclopedia lo scetticismo attivo del gioco e della scommessa combinatoria che appartiene indifferentemente allo scrittore o allo scienziato. Sia l’uno che l’altro costruiscono con il loro gioco combinatorio mondi possibili.
È un’idea che ha già avuto una definizione sulle scacchiere del pensiero deduttivo, ma là poteva passare per correttivo di una scienza troppo sicura di sé. Non sembrava interpretare un ruolo autonomo. Ora nel versante della complessità il ruolo da prima donna del dubbio è inconfondibile. Non è casuale se Queneau può finalmente risplendere. Lui che volgeva in caricatura il linguaggio scientifico ma che era enciclopedista e matematico. Bisogna essere dalla parte della scienza per guardare alla scienza con distacco, senza cadere nel verso opposto dell'irrazionale. Per questo Queneau è un puntuale interprete del libro di Bouvard et Pécuchet, perché anche Flaubert è per la scienza. E per questo Calvino per definire Queneau può usare la definizione che Queneau usa per definire Flaubert, e per definire Flaubert può ricorrere alla definizione di Queneau. Un comune atteggiamento verso la scienza li unisce.
E se, come è vero, Calvino si nasconde dietro Queneau, che si riconosce in Flaubert, è evidente che il mondo comune di Flaubert e Queneau è il mondo di Calvino. Flaubert, Queneau e Calvino s’intrecciano in una ghirlanda come Gödel, Escher e Bach nel libro di Hofstadter. Sono una gerarchia aggrovigliata.
Ma non aspettiamoci una copia fedele: «Tu non sei un vile copista». Sarà una reinterpretazione che in linea con lo scetticismo attivo e in ossequio alla ‘cattiva’ compagnia di Queneau «Trascendant Satrape» del «Collège de pataphysique» - «l’associazione dei fedeli d’Alfred Jarry»[7] nata all’insegna del capovolgimento scherzoso - prenderà la forma dell'autosberleffo: Flaubert, Calvino e Queneau paludati in pompa magna congiungersi in corona come le tre Grazie, in difesa dell’offesa alla scienza.
Sarebbe l’arcano del bagatto, «in fondo quello che mistifica di meno»,[8] del buffone, del gioco, del capovolgimento carnevalesco. Sarebbe un arcano bianco, con un suo fascino e non senza fondamento.
Nel gioco di livelli mobilitato attorno alla circolarità Flaubert-Calvino-Queneau è evidente il filo nascosto del livello autobiografico. E quando nelle Lezioni si parla di autobiografia significa scelte letterarie.
Spesso Calvino proietta ciò che è o che vorrebbe essere, o se si preferisce, quel che vuol apparire, sugli astri del suo sistema come facevano i magi d’oriente per fissare le nozioni di psicologia.
Scoprire la trama di Queneau dietro Calvino è fin troppo facile. La sua adesione all’Ouvrier de literature potentielle, di cui Queneau è stato sommo satrapo, è nota. Calvino si è peritato di sponsorizzare Queneau nella cultura italiana e non solo con la traduzione dei Fiori blu. D'altra parte Calvino non ha remore a dichiarare la sua incondizionata adesione all’insegnamento di Queneau, tanto da tracciarne un profilo dietro il quale non è difficile riconoscere Calvino stesso.
Queneau
è un eccezionale esempio di scrittore sapiente e saggio [...], con un bisogno inesauribile di inventare e sondare possibilità (nella pratica della composizione letteraria come nella speculazione teorica) là dove il piacere del gioco — insostituibile contrassegno dell’umano — gli garantisca che non s’allontana dal giusto.
Qualità tutte che fanno di lui, ancora in Francia e nel mondo, un personaggio eccentrico, ma che chissà potranno indicarlo, un giorno forse non lontano, come un maestro, uno dei pochi che restino in un secolo in cui i maestri cattivi o parziali o insufficienti o troppo bene intenzionati sono stati tanti. A me, per non andar più lontano, Queneau appare già da un pezzo in questo ruolo, anche se — forse per eccesso d’adesione — m’è sempre riuscito difficile spiegare compiutamente perché.[9]
Basta sostituire Francia con Italia, eccentrico con anticonformista e il resto potrebbe filare liscio. Chi avrebbe qualcosa da obiettare?
Vada per Queneau, ma per Flaubert?
Anche qui il gioco è semplice.
Calvino si proietta in Queneau, Queneau si proietta in Flaubert. La formula sembra una variante del modo con cui Calvino descrive i livelli della realtà in Flaubert:
Il Gustave Flaubert autore delle opere complete di Gustave Flaubert proietta fuori di se stesso il Gustave Flaubert autore di Madame Bovary il quale proietta fuori di se stesso il personaggio d’una signora borghese di Rouen [...][10]che si conclude con la famosa affermazione di Flaubert: «Madame Bovary c’est moi».
Calvino si proietta in Queneau, che si proietta in Flaubert. «Flaubert c’est moi» sembra dire Calvino. E perché, per alleggerire il livello autobiografico, non giocare con Queneau a disegnare l’arcano del bagatto? Il «piacere del gioco» è l'«insostituibile contrassegno dell’umano».[11]
Si dirà: Flaubert è maestro del realismo, Calvino ne rifugge.
Flaubert è realista tanto quanto Manzoni è cattolico. Hanno quella piccola differenza, quella riga bianca che dà l’idea di aver quasi saltato il fosso. Ma l’aver quasi saltato il fosso è come trovarsi con il cul nell’acqua. Provare per credere.
Ancora nel contesto dei livelli della realtà in Flaubert che abbiamo or ora menzionato Calvino aggiunge:
È sempre solo una proiezione di se stesso che l’autore mette in gioco nella scrittura, e può essere la proiezione d’una vera parte di se stesso come la proiezione d’un io fittizio, d’una maschera».[12]
Realismo o no, grumosa continuità delle cose o astrazione delle scacchiere è sempre l’io dell’autore che entra in gioco e quel che conta è il risultato.
È un fatto che quando con Flaubert la letteratura realistica tocca la sua punta massima di fedeltà ai dati dell’esperienza, il senso che ne risulta è quello della vanità del tutto. Dopo aver accumulato minuziosi particolari e costruito un quadro di perfetta verità, Flaubert mostra che sotto c’è il vuoto, che tutto quel che succede non significa niente.[13]
Questo Calvino lo scrive nel 1958 quando le scacchiere non si profilavano ancora e forse non erano neanche in gestazione. E ancora: Flaubert segna la fine del romanzesco ed «è l’iniziatore della dissoluzione delle forme letterarie che sarà poi programma delle avanguardie».[14]
Il realismo di Flaubert è graffiante: sgretola ciò che tocca. È, come lo definisce Blumenberg, «pseudorealismo».
C’è realismo e realismo, ma forse la questione è mal posta: quel che conta è la pagina bianca del dubbio che tiene desta la quête.
[1] I. Calvino, Il conte di Montecristo, in ID, Romanzi e racconti, II, Mondadori, p. 356.
[2] I. Calvino, Lezioni americane, Garzanti, 1988, pp. 112-113.
[3] I. Calvino, Introduzione e Nota in Raymond Queneau, in ID, Saggi, I, 1421-22.
[4] I. Calvino, La filosofia di Raymond Queneau, cit., p. 1419.
[5] I. Calvino, La filosofia di Raymond Queneau, cit., p. 1420-21.
[6] I. Calvino, La filosofia di Raymond Queneau, cit., p. 1420.
[7] I. Calvino, La filosofia di Raymond Queneau, cit., p. 1421.
[8] Intervista di Daniele del Giudice, «Paese Sera», 7 gennaio 1978. Ora I. Calvino, Situazione 1978, Saggi, II, p. 2832.
[9] I. Calvino, La filosofia di Raymond Queneau, cit., p. 1412.
[10] I. Calvino, I livelli della realtà in letteratura, in ID, Saggi, I, p. 390.
[11] I. Calvino, La filosofia di Raymond Queneau, cit., p. 1412. Altrove Calvino dice: «non dobbiamo dimenticare che i giochi, da quelli infantili a quelli degli adulti, hanno sempre un fondamento serio: sono soprattutto tecniche d’addestramento di facoltà e attitudini che saranno necessarie nella vita». I. Calvino, Ariosto: la struttura dell'Orlando furioso, in ID, Saggi, I, p. 767.
[12] I. Calvino, I livelli della realtà in letteratura, cit., p. 390.
[13] I. Calvino, Natura e storia del romanzo, in ID, Una pietra sopra, Saggi, I, p. 36.
[14] I. Calvino, Il romanzo come spettacolo, in ID, Una pietra sopra, Saggi, I, p. 271.
Voci correlate
La presente pagina fa parte di un ipertesto sulle Lezioni americane di I. Calvino e sulle Metamorfosi di Apuleio.