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Calvino e la scienza


Quadro mitologico e quadro epistemologico
(A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma. Le “Lezioni americane” di I. Calvino, pp. 326-327)



Con quadro mitologico e quadro epistemologico intendiamo sottolineare lo scarto tra un immaginario prevalentemente governato dalla suggestione delle immagini, benché scientifico, e un immaginario rigorosamente definito, distinzione peraltro legittimata dall’alchimia delle Lezioni.

Quando sullo sfondo ordine disordine Calvino riconduce le scelte stilistiche alla visione del mondo afferma:

Questo legame tra le scelte formali della composizione letteraria e il bisogno di un modello cosmologico (ossia d’un quadro mitologico generale) credo sia presente anche negli autori che non lo dichiarano in modo esplicito

Ora, per definire i termini di una visione del mondo, o di una cosmologia perché in fondo di questo si tratta, sembrerebbero più rigorosi e appropriati, al giorno d'oggi, i termini di un quadro scientifico-epistemologico, piuttosto di un quadro mitologico. È vero, notavamo, che in quanto proiezioni delle latebre dell'io sia le immagini mitiche che le immagini scientifiche scaturiscono dall'unico processo della mitopoiesi, ma è vero anche che la categoria che definisce il quadro mitologico di Joyce è l'epistemologia («Joyce ha elaborato uno stile che corrisponde alla sua complessa epistemologia». Idem per il quadro di Gadda: l’«epistemologia implicita nella scrittura di Gadda».

L'espressione quadro mitologico ben sottolinea la dipendenza della visione del mondo dalla fisiologia dei meccanismi mentali, cui spetta alla Visibilità riordinare un quadro attendibile. Ma appurato ciò, esserne o non esserne consapevoli diventa discriminante.

Se il metro è il modello oggettuale, se sono convinto che l'immagine della realtà è copia della realtà, l'adesione al quadro sarà incondizionata, senza l'interposizione di filtri correttivi tra realtà e mitopiesi, sarà un quadro mitologico.

Laddove invece c'è la consapevolezza dello scarto, l'immagine della realtà sarà distribuita in livelli, ciascuno dei quali dotati di sue coordinate che vanno di volta in volta definite e dichiarate, pena la torre di babele.

Il quadro epistemologico si staglia sulla crisi delle assolutezze e delle certezze, si muove in un quadro variegato di porzioni di realtà (e di verità): la dichiarazione delle condizioni di formalità non è un fiore all’occhiello, ma la definizione delle condizioni in cui il quadro prende un senso. Quadro mitologico invece bene riassume e si adatta a un’immagine della realtà desunta dalsenso comune, una realtà ovvia, unica, assoluta per cui non si rendono necessari i distinguo oppure ancora può interpretare i contorni di un quadro suggerito dall’istinto poetico e non sottoposto a verifica.

Per Joyce e Gadda, Calvino parla di epistemologia perché il loro istinto poetico si prefigge di superare il senso condiviso di realtà, è agitato dallo sforzo conoscitivo di definire un rapporto diverso con le cose, c’è l’intento di tracciare nuove condizioni di formalità.

Calvino con le Lezioni passa, pur senza modificare la sostanza, da una serie di nodi di idee che hanno orientato la sua narrativa, alla delineazione delle condizioni di formalità che la inquadrano rigorosamente.

In definitiva sotto i simboli del dibattito più significativo che coinvolge scienza e cultura in questo scorcio di secolo approda la concezione della realtà di Calvino. Una concezione rimasta dicotomica senza quella sintesi che verosimilmente sarebbe scaturita da qualche corto circuito della conferenza conclusiva, riassumibile per un verso nell’immagine del cristallo (la parte più eclatante o nota di Calvino, quella delle scacchiere per intenderci) e per l’altro nell’immagine della fiamma, apparsa per la prima volta, anche se ancor priva dell’emblema, nella definizione di Cibernetica e fantasmi e trasfigurata nei corsivi delle Città invisibili. Ed è dalla parte della fiamma che scaturiscono le sorprese più significative, perché è la componente di Calvino meno nota e più trascurata.





copertina e-book tra il cristallo e la fiamma


Tra il cristallo e la fiamma


Copertina Eros al femminile


Sommario

«La letteratura si regge proprio sulla distinzione di diversi livelli di realtà e sarebbe impensabile senza la coscienza di questa distinzione. L’opera letteraria potrebbe essere definita come un’operazione nel linguaggio scritto che coinvolge contemporaneamente più livelli di realtà. Da questo punto di vista una riflessione sull’opera letteraria può essere non inutile allo scienziato e al filosofo della scienza».

 

 

A fare la parte del leone nella combinatoria di Calvino non è lo strutturalismo, ma la teoria dell’informazione.

 

 

La Consistency, la lezione non scritta, avrebbe dato concretezza all'ambizione di «tessere insieme i diversi saperi e i diversi codici in una visione plurima, sfaccettata del mondo».

 


4. Una proiezione sulla Consistency






1. I livelli “di” realtà

 Nello scenario della letteratura italiana l’autore più attento e sensibile agli sviluppi della scienza e delle sue implicazioni nell’epistemologia è stato senz’altro Calvino. Ne sono una prova lampante e consolidata i racconti delle Cosmicomiche, il cui plot prende spunto, trasfigurandole, da teorie scientifiche.

Ma l’interesse di Calvino per la scienza va molto al di là di quelle che possono sembrare delle incursioni alla ricerca di spunti per alimentare la fantasia.

Molti dei suoi numerosi interventi saggistici sottintendono la scienza e i suoi risvolti nell’epistemologia; alcuni, poi in particolare, lasciano trapelare apertamente il rumine dello specialista piuttosto che l’interesse del curioso. È il caso ad esempio della Relazione tenuta al Convegno internazionale Livelli della realtà (Palazzo Vecchio, Firenze, 9-13 settembre 1978). Il «convegno, organizzato da Massimo Piattelli-Palmarini, riuniva filosofi, storici della scienza, fisici, biologi, neurofisiologi, psicologi, linguisti, antropologi, tanto inglesi e americani che francesi e italiani» ci tiene a informare Calvino nella nota introduttiva al saggio.

È evidente che in tal concilio Calvino, unico tra gli scrittori «tanto inglesi e americani che francesi e italiani», non era andato a parlare per far prendere aria ai denti. E nel dubbio che qualcuno potesse scambiare il suo contributo per un mazzo di fiori esordisce con il dire che per la letteratura l’articolazione della realtà in livelli è pane e companatico e che perciò scienziati ed epistemologi tirassero bene le orecchie, perché non avrebbero avuto che da trarne benefici.

I vari livelli di realtà esistono anche in letteratura, anzi la letteratura si regge proprio sulla distinzione di diversi livelli di realtà e sarebbe impensabile senza la coscienza di questa distinzione. L’opera letteraria potrebbe essere definita come un’operazione nel linguaggio scritto che coinvolge contemporaneamente più livelli di realtà. Da questo punto di vista una riflessione sull’opera letteraria può essere non inutile allo scienziato e al filosofo della scienza (I. Calvino, I livelli della realtà in letteratura, in ID, Saggi, (1945-85), a cura di M. Barenghi, Milano 1995, vol. I, p. 381).

E come se non bastasse, lascia sornionamente capire, in chiusura, che lo scrittore ha per lo meno un punto di vantaggio su epistemologi e scienziati: mentre questi si interrogano sui livelli “della realtà”, dando cioè per presupposto un concetto univoco di realtà, l’invenzione poetica parla di livelli “di” realtà, ossia osserva la realtà da un anello dal quale il capello che gli scienziati credono di spaccare in due non è che un frammento di un capello già spaccato dallo scrittore. La realtà per lo scrittore è come l’anello di Saturno: un anello fatto di anelli fatti di anelli…

Al termine di questa relazione m’accorgo d’aver sempre parlato di “livelli di realtà” mentre il tema del nostro convegno suona (almeno in italiano): “I livelli della realtà”. Il punto fondamentale della mia relazione forse è proprio questo: la letteratura non conosce la realtà ma solo livelli. Se esista la realtà di cui i vari livelli non sono che aspetti parziali, o se esistano solo i livelli, questo la letteratura non può deciderlo. La letteratura conosce la realtà dei livelli e questa è una realtà che conosce forse meglio di quanto non s’arrivi a conoscerla attraverso altri procedimenti conoscitivi. È già molto (I. Calvino, I livelli della realtà in letteratura, cit. p. 398).

 





 

2. Cibernetica e fantasmi


Si è tanto parlato delle connessioni di Calvino con lo strutturalismo. Sono legami che neanche Calvino ha mai negato, e che ha magistralmente esibito con il Castello dei destini incrociati.

Ma si è fuori strada se si credesse che la combinatoria di Calvino è una piatta e lineare riedizione delle suggestioni dello strutturalismo d’oltralpe. Dietro i suoi meccanismi combinatori, dietro la combinatoria di Calvino c’è la scienza. Lo dimostra Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla narrativa come processo combinatorio), una conferenza tenuta in varie città d’Italia e d’Europa nel 1967, ampiamente citata dalla critica, ma sostanzialmente ignorata nelle sue implicazioni scientifiche.

Proponiamo un paragrafo di Tra il cristallo e la fiamma dove si sostiene che a fare la parte del leone nella combinatoria di Calvino non sia lo strutturalismo, ma la teoria dell’informazione.

Vediamo più da vicino questo benedetto Cibernetica e fantasmi, non tanto per far dispiegare le ali della trasfigurazione a un brutto anatroccolo ma per evidenziarne l’isomorfismo con le Lezioni. 

La tesi della conferenza, come lascia intuire il sottotitolo, è la letteratura come processo combinatorio e per sostenerla Calvino lancia la stessa procedura dei Six memos, ossia parte dalla tradizione letteraria più antica per chiedersi se anche nelle forme più complesse un numero illimitato di trasformazioni sia riducibile a un numero finito di strutture, come nel mito e nella fiaba. E si appoggia alle analisi dei formalisti russi e di Barthes e agli scrittori del gruppo «Tel Quel» per concludere che la letteratura è riconducibile «a combinazioni tra un certo numero d’operazioni logico-linguistiche o meglio sintattico-retoriche, tali da poter essere schematizzate in formule tanto più generali quanto meno complesse» .

L’interesse di Calvino è l’operazione essenzialmente matematica sottesa al processo combinatorio della letteratura. Se guarda allo strutturalismo è perché questo applica alla letteratura quel procedimento con risultati convincenti, ma lo strutturalismo è uno strumento come altri, tant’è vero che Calvino apre alla teoria dell’informazione, come teoria inglobante.

Non solo la letteratura, ma anche il pensiero, anzi, gli stessi processi biologici sono regolati dallo stesso procedimento matematico evidenziato dalla teoria dell’informazione che Calvino fa precedere dal contesto epistemologico che l’ha maturata.

Nel modo in cui la cultura d’oggi vede il mondo, c’è una tendenza che affiora contemporaneamente da varie parti: il mondo nei suoi vari aspetti viene visto sempre più come discreto e non come continuo. Impiego il termine «discreto» nel senso che ha in matematica: quantità «discreta» cioè che si compone di parti separate.

È lo scenario epistemologico della fisica quantistica, che descrive una realtà fatta di vuoti intervallati a grandi distanze da frammenti di pieno, di una realtà non continua come una linea retta ma spezzata in tante brevi linee intervallate da lunghi tratti bianchi, rischiarata da una luce fatta di brevi intervalli d’energia separati da interminabili vuoti di buio e regolata non dal meccanismo rigorosamente scandito della fisica di Galileo e di Newton ma affidata alla aleatorietà di eventi possibili ma non necessari.

Su questo sfondo di probabilità si muove il processo combinatorio di Calvino che è lo sfondo stesso dell’attività cerebrale.

Il pensiero, che fino a ieri ci appariva come qualcosa di fluido, evocava in noi immagini lineari come un fiume che scorre o un filo che si sdipana, oppure immagini gassose, come una specie di nuvola, tant’è vero che veniva spesso chiamato «lo spirito», - oggi tendiamo a vederlo come una serie di stati discontinui, di combinazioni di impulsi su un numero finito (un numero enorme ma finito) di organi sensori e di controllo. I cervelli elettronici, se sono ancora lungi dal produrre tutte le funzioni d’un cervello umano, sono però già in grado di fornirci un modello teorico convincente per i processi più complessi della nostra memoria, delle nostre associazioni mentali, della nostra immaginazione, della nostra coscienza. Shannon, Weiner [sic], von Neumann, Turing, hanno cambiato radicalmente l’immagine dei nostri processi mentali. Al posto di quella nuvola cangiante che portavamo nella testa fino a ieri e del cui addensarsi o disperdersi cercavamo di renderci conto descrivendo impalpabili stati psicologici, umbratili paesaggi dell’anima, - al posto di tutto questo oggi sentiamo il velocissimo passaggio di segnali sugli intricati circuiti che collegano i relé, i diodi, i transistor di cui la nostra calotta cranica è stipata (I. Calvino, Cibernetica e fantasmi in ID. Saggi, cit., pp. 209-210).

C’è confusione ossia continuità tra materia sensazioni emozioni sentimenti pensiero: una serie di impulsi elettrochimici, partiti da una massa di neuroni sufficientemente grande, attiva un livello superiore di neuroni che, se stimolati in una massa sufficiente grande, interagendo con i precedenti, attivano a loro volta un livello più alto e così su su fino ai simboli e al pensiero (e ai paradossi).

Nel cervello come su una scacchiera «in cui sono messi in gioco centinaia di miliardi di pezzi» sono possibili tante mosse che «neppure in una vita che durasse quanto l’universo s’arriverebbe» a giocarle tutte.

Su questo sfondo, su uno sfondo digitale, si muove il processo combinatorio di Calvino non su quello dello strutturalismo. Certo lo strutturalismo gioca la sua parte, ma la sua parte la gioca anche Queneau che muove da premesse matematiche e la sua parte la gioca Santillana con l’immagine dei dadi e della scacchiera degli antichi e il tutto viene posto nel quadro epistemologico della seconda rivoluzione scientifica, aprendosi agli sviluppi incontenibili della teoria dell’informazione. La scacchiera delle Città invisibili è già qui in Cibernetica e fantasmi, nel calcolo probabilistico della teoria dell’informazione, agganciato al mito svelato da Santillana. Quando dalle Lezioni Calvino invita a guardare alle Città invisibili, invita a guardare anche al quadro mitologico che l’ha prodotto. In questo non c’è solo lo strutturalismo ma c’è la teoria dell’informazione che apre verso la continuità con la materia e da questa alle varie forme viventi fino all’uomo e alla storia. «La sterminata varietà delle forme vitali si può ridurre alla combinazione di certe quantità finite. Anche qui è la teoria dell’informazione che impone i suoi modelli» .

Fermarsi nel quadro mitologico delle Città invisibili alle sole scacchiere è per lo meno come cancellare la colonna sonora di un film. Nelle Città invisibili non c’è solo la trasparenza del cristallo, c’è anche il rumore della fiamma. E in Cibernetica e fantasmi c’erano già cristallo e fiamma, come c’erano già le complicanze dell’infinitesimo e dei paradossi. 

Il processo combinatorio di Calvino si muove sullo sfondo della logica, della matematica, delle scienze e con questo sfondo approda ai - ma sarebbe meglio dire - s’incontra coi processi combinatori di strutturalismo e semiotica.

Anche per questo Calvino ha potuto conseguire risultati originali, come dimostra l’unicità del Castello dei destini incrociati, la sua opera più vicina alle suggestioni strutturalistiche d’oltralpe (A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma. Le Lezioni americane di I. Calvino, pp. 322-323).






 

3. Un'impresa smisurata

 

Dove però il Calvino “scienziato” dà la prova più compiuta di sé è nelle Lezioni americane con le quali reinterpreta l’ambizione già di Lucrezio e di Ovidio, di «rappresentare la molteplicità delle relazioni, in atto e potenziali» facendosi carico di «tessere insieme i diversi saperi e i diversi codici in una visione plurima, sfaccettata del mondo».

È un proposito che resta velato nelle affermazioni di principio:

L'eccessiva ambizione dei propositi può essere rimproverabile in molti campi d'attività, non in letteratura. La letteratura vive solo se si pone degli obiettivi smisurati, anche al di là d'ogni possibilità di realizzazione. Solo se poeti e scrittori si proporranno imprese che nessun altro osa immaginare la letteratura continuerà ad avere una funzione. Da quando la scienza diffida dalle spiegazioni generali e dalle soluzioni che non siano settoriali e specialistiche, la grande sfida per la letteratura è il saper tessere insieme i diversi saperi e i diversi codici in una visione plurima, sfaccettata del mondo. (I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 110)

Se l'ambizione è rimasta nei propositi si deve imputare soltanto al fatto che l’improvvido intervento delle Parche ha deprivato le Lezioni del segmento finale. In realtà Calvino con la Consistency avrebbe dato concretezza a tale ambizione.

Nell’Esattezza, quando affronta la questione delle due epistemologie emblematizzate da cristallo e fiamma, Calvino scrive:

Lascerò ora da parte le implicazioni nella filosofia della scienza delle posizioni di Piaget, che è per il principio dell’«ordine dal rumore», cioè per la fiamma, e di Chomsky che è per il «self-organizing-system», cioè per il cristallo. (Ivi, pp. 69-70)

È un chiaro indizio di ciò che Calvino aveva in mente di affrontare e dal momento che tali implicazioni latitano sia al livello locale dell’Esattezza, sia al livello globale delle conferenze successive, escludendo la svista, non resta che ipotizzare una loro messa in chiaro nella Consistency.

copertina della Consistenza

Nella Consistency Calvino sarebbe tornato sulle epistemologie di cristallo e fiamma, ossia sui due modelli alternativi della biologia, e da questa alle «teorie sul linguaggio e sulle capacità di apprendimento».

Ora, se si ha un’idea delle problematiche affrontate dal convegno organizzato da Massimo Piattelli-Palmarini e dal tenore degli interventi non solo dei due contendenti, ma anche del consesso di specialisti che hanno fatto loro da ghirlanda, il solo proposito di ritornare su tali questioni implica una conoscenza che andava molto più in là di quanto lasci supporre Calvino quando fa credere di frequentare la scienza per rinverdire la fantasia:

Tra i libri scientifici in cui ficco il naso alla ricerca di stimoli per l’immaginazione, m’è capitato di leggere recentemente che i modelli per il processo di formazione degli esseri viventi sono «da un lato il cristallo (immagine d’invarianza e di regolarità di strutture specifiche), dall’altro la fiamma (immagine di costanza d’una forma globale esteriore, malgrado l’incessante agitazione interna)». Cito dall’introduzione di Massimo Piattelli-Palmarini al volume del dibattito tra Jean Piaget e Noam Chomsky al Centre Royaumont (Théories du langage - Théories de l’apprentissage, Éd. du Seuil, Paris 1980). (Ivi, p. 69).

Si può quindi intuire quanto esteso sia il buco lasciato dalla mancanza della Consistency.

 





 

4. Una proiezione sulla Consistency

4.1 Due forme di conoscenza

La necessità (o per usare un termine dell’area Oulipo, le contraintes delle Lezioni), la loro natura di viatico o di sintesi dell’intera sua esperienza, imponevano a Calvino di inquadrare in un più ampio contesto ciò che gli era suggerito quasi d’istinto da «quella generosa immaginazione naturale, quella fecondità polimorfa e quasi vegetale» (Citati), che l’ha spinto e sostenuto da sempre a nutrirsi di filosofia e scienza. E così come nell’Esattezza, la conferenza conclusiva del ciclo del cristallo, Calvino offre una conchiglia alla scienza classica, al ragionamento deduttivo, ai sistemi formali (Cfr. A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, cit., pp. 294-96 e ss.), di cui la scacchiera delle Città invisibili è una trasfigurazione (Cfr. ivi, pp. 292-94), nella conferenza conclusiva del ciclo della fiamma doveva offrire una teca all’altra pulsione che da sempre attraversa la sua scrittura.

In realtà sempre la mia scrittura si è trovata di fronte due strade divergenti che corrispondono a due diversi tipi di conoscenza: una che si muove nello spazio mentale d’una razionalità scorporata, dove si possono tracciare linee che congiungono punti, proiezioni, forme astratte, vettori di forze; l’altra che si muove in uno spazio gremito d’oggetti e cerca di creare un equivalente verbale di quello spazio riempiendo la pagina di parole, con uno sforzo di adeguamento minuzioso dello scritto al non scritto, alla totalità del dicibile e del non dicibile. Sono due diverse pulsioni verso l’esattezza che non arriveranno mai alla soddisfazione assoluta: l’una perché le lingue naturali dicono sempre qualcosa in più rispetto ai linguaggi formalizzati, comportano sempre una certa quantità di rumore che disturba l’essenzialità dell’informazione; l’altra perché nel rendere conto della densità e continuità del mondo che ci circonda il linguaggio si rivela lacunoso, frammentario, dice sempre qualcosa in meno rispetto alla totalità dell’esperibile.
Tra queste due strade io oscillo continuamente e quando sento d’aver esplorato al massimo le possibilità dell’una mi butto sull’altra e viceversa. (I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 72)

Ebbene questa teca, per riprendere e spingere il ragionamento di Tra il cristallo e la fiamma alle sue estreme conseguenze (Cfr. A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, cit., pp. 324-362), non poteva essere formata che dai materiali messi a disposizione dalle scienze della complessità. Il che comporta privilegiare tra i capifila del confronto al Centre Royaumont le posizioni di Piaget piuttosto che di Chomsky, ricalcando quella subliminale partigianeria dalla quale Massimo Piattelli-Palmarini si lascia attraversare nella conduzione del dibattito, una partigianeria equilibrata, “leggera”, tale da non calpestare il mondo del cristallo, che resta imprescindibile (Cfr. ivi, p. 333). La fiamma per Calvino non è alternativa al cristallo; semplicemente spinge il ragionamento oltre le secche di una scienza troppo sicura delle sue certezze riduzioniste, troppo centrata sul dualismo cartesiano di res cogitans e res extensa, e soprattutto, la cosa ha del paradosso, ma non lo è se non alla luce della concezione evoluzionista del mito (Cfr. ivi, pp. 62-63), consente di riannodare un filo molto antico nella storia della poesia, una storia tracciata dall’atomismo di Lucrezio e di Ovidio della Leggerezza (cfr. ivi, p. 48-50) e riannodata, a Prigogine della Molteplicità (Cfr. ivi pp. 54-55 e 502-513), il quale peraltro nella Nuova alleanza aveva riconosciuto per conto proprio la sua parentela con Lucrezio.

Ma soffermiamoci sulle ragioni per cui Piaget piuttosto di Chomsky.

 





4.2 Scienze nomotetiche e scienze evolutive

Riassumiamo i termini del ragionamento così come licenziato dall’Esattezza: due epistemologie a confronto, due diverse «implicazioni nella filosofia della scienza». In che cosa «il principio dell’“ordine dal rumore”» e il «self-organizing-system» differiscono? Quali sono le conseguenze epistemologiche che ne discendono.

Il nocciolo del confronto tra Chomsky e Piaget è relativo - come evidenzia Calvino riprendendo il titolo del volume degli atti del simposio - «alle teorie sul linguaggio e sulle capacità di apprendimento» (I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 69). La loro chiarificazione necessitando di basi biologiche, sconfina in un campo che, per essere terra di frontiera tra due opposte concezioni della scienza, viene a coinvolgere l’intero quadro scientifico. Non a caso, accanto a etnologi, linguisti, antropologi, psicologi, sociologi, si sono confrontati fisici chimici biologi genetisti, divisi tra chi muove da formulazioni di stampo innatista, convalidando quindi una concezione dei processi cognitivi preformati sulla specifica base biologica della specie umana, e chi ritiene determinante il ruolo dell’esperienza nella formazione delle strutture cognitive, lasciando aperta la continuità animale-uomo.

Posta in questi termini la questione se riesce a dare un’idea del confronto sotteso a cristallo e fiamma, non riesce però a tradurre con sufficiente approssimazione l’intera problematica, perché se è vero che il paradigma del cristallo si muove nell’habitat dell’armamentario innatista, la fiamma introduce un punto di vista che solo apparentemente ricalca le batterie opposte. Il suo punto di osservazione infatti, pur collocandosi nell’alveo empirista, assume rispetto a innatismo ed empirismo quella distanza propria del regard éloigné (Cfr. A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, cit., pp. 119 e ss.) che consente di tracciare una terza via. Riformuliamo la questione muovendo da questo punto di vista.

Secondo il primo modello la realtà è concepita come una collezione di oggetti, ognuno dotato di proprietà completamente determinate dal suo stato fisico. Non importa se gli oggetti sono plasmati su quelle evidenze della realtà del mondo fenomenico, che a un capo annodano il mondo platonico delle idee e all’altro l’edificio positivista, o se appartengono al mondo rarefatto dei sistemi formali, sul quale l’empirismo logico si era impegnato a rifondare l’unità della scienza andata in frantumi. Da questo punto di vista platonismo e neoempirismo logico sono paritetici. Gli oggetti godono di un ordine ideale assoluto predeterminato di inesorabile evidenza. Parallelo a quest’ordine corre l’atto cognitivo che riproduce esattamente come su una lastra fotografica tale ordine secondo un processo progressivo e inarrestabile. Lo stretto isomorfismo tra il dentro e il fuori implica, in parallelo all’oggettività degli oggetti e delle leggi immutabili (esse stesse oggetti) che li reggono, un modello concettuale altrettanto sorretto da leggi immutabili ed eterne, innate per l’appunto. Non a caso immutabili sono le strutture affermate dalla logica neo-empirista.

Per il secondo modello non ci sono evidenze preformate. Fondamentale si pone il ruolo del soggetto nella definizione dell’oggetto, ineludibile è il ruolo svolto dalla specificità delle sue matrici mentali. Oggetto e soggetto sono solidali. La realtà pur dotata di un suo statuto autonomo, nel momento in cui entra nel processo cognitivo, passa attraverso filtri (organi sensoriali e processi mentali) che la interpretano e deformano. Il concetto di oggettività perde le valenze dell’evidenza e dell’immediatezza per diventare una convenzione. Parimenti viene meno il modello concettuale preformato, mentre diventano fondamentali sia la genesi, il contesto di scoperta e lo sviluppo storico delle conoscenze, sia i processi mentali che presiedono alla loro formazione. In questo approccio non è più l’oggetto che con la sua evidenza crea la disciplina, ma è l’insieme dei processi storici e concettuali della teoria a creare l’oggetto. Dalla struttura formale e concettuale della teoria dipende l’indagine dell’oggetto. La realtà non è più ordinata in un edificio di discipline gerarchicamente definite in base al grado di complessità dei suoi oggetti, ma è frammentata in molteplici livelli che possono di volta in volta variare con il variare di premesse e assunti metodologici.

I criteri comtiani di “complessità crescente” e di “generalità decrescente” che ordinavano linearmente realtà e scienza, ridotte a leggi semplici ed evidenti, cedono il posto a un groviglio, dove i processi non più unidirezionali fanno capo non a un sistema ordinatore ma a un contesto scientifico-epistemologico frammentato in modi e livelli d’indagine. Per dirla con la Molteplicità, «la scienza diffida dalle spiegazioni generali e dalle soluzioni che non siano settoriali e specialistiche» (I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 110).

È una posizione sostanzialmente antiriduzionista e ciò dimostra quanto sia complessa la posta in gioco tra i due paradigmi in questione, se implicano la coppia riduzionismo/olismo.

È possibile ridurre la realtà e con lei la conoscenza in elementi semplici soggiacenti, in grado di spiegare i fenomeni emergenti? Oppure ha ragione chi dice che “l’intero è più della somma delle sue parti”? Con le implicazioni che ne seguono: materialistiche nel primo e finalistiche nel secondo, con tinte mistiche nel caso del ricorso all’intervento divino e teleonomiche (Cfr. A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, cit., p. 343) quando, pur negando l’atto creativo esterno, si ricorre a qualche forma di scintilla che avrebbe innescato i processi vitali.

L’opposizione tra innatismo ed empirismo si sposta a un altro livello assumendo le sembianze dell’opposizione tra le scienze delle leggi necessarie e universali (le scienze nomotetiche) e le scienze dei processi, dell’unico, dell’irripetibile, del particolare, aprendo il panorama a una catena di antinomie:

 

scienze nomotetiche
  scienze evolutive
   
quantità
 
qualità
generalità
specificità
necessità
contingenza
prevedibilità
imprevedibilità
astrattezza
concretezza
reversibilità
irreversibilità
ripetibilità
irrepetibilità
semplicità
complessità
riduzionismo
olismo
immutabilità
mutevolezza
tautologia
novità
determinismo
aleatorietà
causalità
casualità
legge
caos
logica
arbitrio
ordine
disordine

 

(M. Cini, Un paradiso perduto, Feltrinelli, Milano, 1994, p. 189)

 

Ciò restituisce un’idea della complessità delle implicazioni epistemologiche dei due paradigmi rendicontati nel libro in cui Calvino fa credere di andare a ficcare «il naso alla ricerca di stimoli per l’immaginazione» (I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 69). Quando azzardavamo l’aria sorniona e riduttiva di Calvino non avevamo torto (Cfr. A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, cit., p. 329-330): in uno snodo del genere uno non ci va a far pascolare la fantasia, perché, se non ha un rumine più che inossidabile, qualche mala erba gli può stecchire la reputazione.

Molte delle coppie suddette sono di casa nelle Lezioni: ordine/disordine, legge/caos, causalità/casualità, determinismo/aleatorietà, reversibilità/irreversibilità, generalità/specificità, ripetibilità/irripetibilità più volte risuonano nelle Lezioni. Ma non è difficile smascherarne altre: immutabilità/mutevolezza sono sottese a Lucrezio e Ovidio, tautologia/novità, riduzionismo/olismo sono rovistati dalle gerarchie aggrovigliate di Hofstadter, come prevedibilità/imprevedibilità, causalità/casualità stanno alle strutture dissipative e quantità/qualità, generalità/specificità a Mathesis universalis e Mathesis singularis. Le Lezioni sono talmente in linea con le antinomie isolate da Marcello Cini che ne possono allungare la lista: continuità/discontinuità, linearità/circolarità, realtà/irrealtà, deduzione/induzione, analisi/sintesi, natura/cultura. Il tutto mescolato in un processo ricorsivo reso ancor più sfaccettato dalle rifrazioni dell’ambivalenza.

Ma, vien da chiererci: alla fine Calvino da che parte sta, visto che si altalena tra il pero e il melo, tra due opposte forme di conoscenza?

L’immagine canonica del Calvino delle scacchiere non consente dubbi. Sta dalla parte dell’ordine, delle leggi rigorose, sta dalla parte delle scienze nomotetiche e quindi del cristallo, tanto più che il paradigma della fiamma potrebbe essere confuso con quel filone che tra falsificazionismi, decostruzionismi, pensieri deboli e anarchismi epistemologici ha innescato la sensazione di una crisi della ragione fondata sulla scienza classica o peggio confondersi con quelle schegge mistiche che hanno filato il bozzolo di tarli antiscientifici, sfiduciando la ragione.

Ma la risposta è proprio inappellabile?

Per lo meno non è certo questa l’immagine di sé che Calvino ha seminato nelle Lezioni: «Quando sento d’aver esplorato al massimo le possibilità dell’una mi butto sull’altra e viceversa».

Non è un’affermazione messa a imbellettare un contesto di basso profilo. È la filosofia che Calvino nella lezione dedicata al quadro epistemologico della linea del cristallo getta sul fuoco di «due diverse pulsioni verso l’esattezza» (Cfr. A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, cit., p. 350 e ss.): l’una dell’ordine, l’altra del disordine, l’una d’una razionalità scorporata, l’altra che non s’accontenta del dicibile, di ciò che è ordinato dalla razionalità scorporata, ma che vuol catturare anche l’indicibile, lo scarto, lo scostamento renitente alla norma. Sono in gioco le antinomie universalità/singolarità, quantità/qualità, ripetibilità/irripetibilità. Calvino vuole indossare indifferentemente entrambe le divise. Travasiamo la questione nei ranghi del confronto Chomsky/Piaget. Chomsky è per il paradigma sintetizzato da Piattelli-Palmarini con l’emblema del cristallo, crede in strutture cognitive preformate nello stesso modo in cui «la natura del cristallo sussiste nel liquido, già formata, ed è sufficiente togliere il solvente perché la sua forma si manifesti necessariamente e nella maniera» (M. Piattelli-Palmarini, Théories du langage - Théories de l’apprentissage, cit, p. 35). Il nucleo duro sia della razionalità cristallografica, che della linguistica generativa consiste nel credere che ogni struttura scaturisca dall’interno.

Una grammatica preformata e specifica della specie umana, come per il ragno lo schema innato della tela, si cala per via deduttiva sui dati linguistici, secondo un processo non diverso dallo sviluppo della lastra fotografica. I processi mentali numerosi e distinti fra di loro sono in via di principio isolabili e riconducibili a un soggetto ideale, come all’io trascendentale kantiano è riconducibile la conoscenza.

La necessità dello sviluppo delle strutture cognitive e linguistiche, ripetibili (ripetibilità) in epoche e culture diverse, la semplicità degli elementi costitutivi, riducibili (riduzionismo) a leggi immutabili (immutabilità), la causalità dei processi deduttivi (deduzione) rigorosamente ordinati (ordine) in sequenze ideali (astratto), immuni da inferenze esterne sono categorie dell’innatismo chomskyano. Chomsky occupa la prima componente delle coppie oppositive, che è la stessa dell’immagine canonica di Calvino.

Ma queste conclusioni, dopo il passaggio attraverso la catarsi delle Lezioni, non puzzano subito di bruciato? Sono troppi gli elementi che stridono con gli assunti di fondo delle Lezioni. Ne basta uno per tutti: se è vero che l’innatismo chomskyano scavando le radici profonde del linguaggio rompe la barriera tra scienze biologiche e scienze umane, è pur vero che mantiene una netta demarcazione tra le strutture della mente umana e le strutture delle altre specie.

Quella continuità tra animale e uomo, tra uomo e macchina, tra uomo animali e cose (Cfr. A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, cit., p. 321 e alla voce “continuità”) che è «il punto d’arrivo cui tendeva Ovidio nel raccontare la continuità delle forme, il punto d’arrivo cui tendeva Lucrezio nell’identificarsi con la natura comune a tutte le cose» (I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 120), si scioglie come le cere di Icaro. E con il precipitare di Lucrezio e Ovidio si disperdono al vento trama e ordito della filosofia delle Lezioni.

 





4.3 Dalla parte di Piaget

Anche Piaget indaga le radici biologiche delle strutture mentali, ma a differenza della tradizione razionalista di Cartesio e di Leibniz su cui s’innesta Chomsky, egli non pone nessun limite verso il basso, non pianta nessuna palina tra l’animale e l’uomo.

Definisce il comportamento come «l’insieme delle azioni che gli organismi esercitano sull’ambiente esterno per modificare gli stati e per cambiare la propria situazione in rapporto ad esso»: come tale esso è identificabile e studiabile obiettivamente in tutte le specie animali, indipendentemente dalle possibili speculazioni sul rinvenimento in talune di esse degli inizi di funzioni rappresentative e semiotiche. La stessa concezione generale che Piaget ha dell’intelligenza coincide del resto con questa apertura verso il basso del campo psicologico. Se l’intelligenza non è una facoltà, ma è strutturata su livelli assai diversi quanto alle sue competenze, è impossibile rinvenire per essa un limite netto e definito verso il basso (G. Bocchi, M. Ceruti, Disordine e costruzione, Feltrinelli, Milano 1981, pp. 267-268.).

La sua è una psicologia delle condotte. Laddove un soggetto esibisce dei comportamenti, si è in presenza della possibilità di una loro trattazione dal punto di vista psicologico, indipendentemente dal fatto che esso possegga una rappresentazione di tali condotte, che esibisca una funzione semiotica.

Piaget riconosce «una notevole base innata per tutte le attività del soggetto», ma solo di tipo «funzionale, relativa cioè al funzionamento dell’organismo biologico nel suo insieme e dell’apparato neuronico in particolare». Per i contenuti specifici, per le abilità, comprese le competenze logico-matematiche per le quali lo stesso empirismo logico riservava il privilegio di una teca innata, non esiste nessuna preformazione nel genotipo «che il successivo processo di sviluppo porterebbe poi a maturazione» (Ivi, p. 219).

Nemmeno l’istinto, quell’oggetto tracciato dal cogito per separare antropocentricamente il suo da ogni altro comportamento, è affidato esclusivamente a strutture innate. Anche gli atti comportamentali più rituali («corteggiamento, edificazione del nido») richiedono un adattamento non prevedibile del comportamento di un individuo a quello degli altri individui coinvolti. «Ogni diversa applicazione di uno schema istintuale è sempre un’estensione» (Ivi, p. 271).

Si danno degli schemi assai generali applicabili ad un gran numero di situazioni, sui quali se ne innestano altri più specifici e più ristretti, secondo una modalità osservabile anche nel neonato, «allorché esibisce riflessi generali di postura, prensione, ecc., sulla cui base costituisce e coordina gli schemi particolari da applicare alle situazioni specifiche» (Ibidem).

«Nel fanciullo i vari schemi particolari sono tutti costruiti e solo per i riflessi più generali si può parlare di innatismo, nell’animale la programmazione genetica agisce in misura molto maggiore» (Ivi, p. 272).  Ma anche per l’animale si può parlare di capacità di evoluzione e di apprendimento degli schemi più specifici, perché sono questi a mediare i rapporti fra il soggetto, gli altri individiui e l’ambiente. In ultima istanza, quindi, la flessibilità di certi schemi riveste sempre un elevato valore adattativo. Rispetto a tali processi i fattori innati e quelli acquisiti non appaiono quindi operare secondo strategie differenti e sconnesse nella produzione delle strutture cognitive, bensì combinarsi dialetticamente nella loro costituzione, sia pure in diversa misura a seconda dei differenti livelli. Nella freccia dell’evoluzione è però riscontrabile una direzione ben precisa dal predominio dell’innato a quella dell’acquisito (Ibidem).

Piaget non si ferma alla continuità animale-uomo. La sua ricerca delle radici biologiche della conoscenza è insaturabile come il sinus inexplebilis di Giordano Bruno. L’istinto animale e il comportamento, posti in generale «come livelli di base dai quali poi procedono i vari sviluppi psicogenetici», «possono venir considerati anche come punto d’arrivo di sviluppi puramente organici e fisiologici» (Ivi, p. 272).

Dire che un passero ha bisogno di fuscelli di paglia e di vari materiali per costruire il nido o che una lumaca ha bisogno di calcare, ecc., per costruire il guscio, significa esprimere in entrambi i casi la necessità di incorporare degli elementi esterni nella costruzione delle forme organizzate. Soltanto, nel secondo caso si tratta di una forma organica e l’assimilazione è fisico-chimica, relativa dunque a un “ciclo”. Nel primo caso, al contrario, si tratta delle forme di comportamento o delle forme imposte da esso ad un piccolo settore dell’ambiente esterno: l’assimilazione dei fuscelli di paglia alle forme dell’attività di nidificazione non è allora che funzionale ed in tal caso parliamo di assimilazione ad uno schema. Ma in entrambi i casi vi è assimilazione dell’ambiente ad una forma costruita dall’organismo, dunque assimilazione nello stesso senso generale (J. Piaget, Biologie et connaissance, Gallimard, Paris 1965, pp. 251-52, sta in G. Bocchi, M. Ceruti, Disordine e costruzione, cit., p. 272).

«Fra le assimilazioni di tipo materiale e strutturale proprie dei cicli e quelle funzionali proprie degli schemi» si pongono dei livelli intermedi. La reattività del sistema nervoso può essere considerata una di questi.

Una volta costituitosi il sistema nervoso si può considerare in maniera assai generale la reattività (eccitazione-effezione) come una forma di transizione fra i due tipi di assimilazione, fisiologica e cognitiva. Non c’è più assimilazione nel senso di semplice assorbimento di sostanza o di energia, poiché lo stimolo non è l’ingrediente, ma l’innescatore dell’attività interna e viene così assimilato solo in quanto elemento funzionale. Ma questa non è ancora un’assimilazione cognitiva giacchè questo innesco è ancora causale invece di essere percepito come significativo, mentre diviene cognitivo nella misura in cui si differenzia questa significazione percettiva (J. Piaget, Biologie et connaissance, cit., p. 306, sta in G. Bocchi, M. Ceruti, Disordine e costruzione, cit., p. 273).

Questo significa […] mettere in risalto i caratteri attivi e costruttivi dell’organismo e quindi indirettamente del soggetto tout court. D’altra parte le strutture dell’organismo sono limitate e l’ambiente vi si pone davanti in una varietà di situazioni diversissime e non direttamente prevedibili. Ai fini di un’adeguata sopravvivenza l’organismo deve allora possedere delle capacità di modificazione delle proprie strutture in relazione alle modifiche dell’ambiente, e questa capacità viene definita come funzione di accomodamento.

In maniera molto generale Piaget considera l’adattamento come funzione biologica fondamentale. Il fatto che gli organismi sopravvivono, ed anzi si evolvono e diventano sempre più complessi, dipende dal fatto che si trovano inseriti ed equilibrati nell’ambiente in cui vivono, secondo processi diventati centrali a tutta la ricerca biologica da Darwin in poi. L’ipotesi fondamentale di Piaget è allora che l’adattamento può avvenire se e solo se il rapporto fra l’organismo e l’ambiente riesca a stabilire un equilibrio tra la funzione di assimilazione e quella di accomodamento. Dato che le strutture iniziali di un organismo non sono atte ad assimilare tutte le situazioni ambientali e dato che, d’altra parte, esiste un limite genetico alle loro capacità di adattamento, questo equilibrio non è di natura statica. Il progresso adattativo è la storia di equilibri spezzati e ricostituiti fra assimilazioni ed accomodamenti parziali, che tendono a disporsi in cicli causali retroattivi. Quando questi cicli non riescono a costituirsi vi è dispersione dell’organizzazione; se invece si costituiscono ne deriva una tendenza alla ricostituzione dell’equilibrio su piani sempre più stabili e compiuti. Secondo Piaget, è proprio questo meccanismo il nucleo dei processi evolutivi, sia filogenetici che ontogenetici (G. Bocchi, M. Ceruti, Disordine e costruzione, cit., p. 273-74).

È evidente perché abbiamo insistito su Piaget. Piaget non solo è genericamente in linea con la filosofia della continuità che impregna le Lezioni, ma nutre il nucleo duro della Consistency nel senso che le sue conclusioni fanno da fondamento scientifico della Consistency. Le sue conclusioni estendono il ragionamento della Visibilità, allorché con Giordano Bruno e Douglas Hofstadter si definivano la profondità dei processi mentali (Cfr. A. Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma, cit., p. 417 e ss.). Piaget spinge il discorso ancora più in là, appoggiando questi processi su una base biologica che attraversa gli altri esseri viventi e i processi fisico-chimici. Il suo ragionamento estende secondo una progressione ascendente e discendente nel contempo l’arco della Visibilità. Ascendente in quanto ne sviluppa il ventaglio e discendente in quanto si spinge ancora più in profondità di Bruno e Hofstadter fino a raggiungere i processi biologici che fanno da base sia ai processi neurali, sia alle immagini da essi prodotti. Il pensiero di Piaget, portato in superficie come quello di Bruno e di Hofstadter, o lasciato tra le pieghe come quello di Prigogine nella Molteplicità, non può non essere una fonte necessaria della Consistency. È in perfetta simmetria con il movimento discendente che ha “abbassato” le immagini piovute dal cielo delPurgatorio dantesco prima fino al sinus di Giordano Bruno - profondo tanto quanto estesi sono gli spazi infiniti che è capace di immaginare - e poi ai processi dei circuiti mentali di Hofstadter (Cfr. ivi, pp. 417 e ss). Il costruttivismo di Piaget va ancora più in profondità di Bruno e Hofstadter: si estende alle vie intermedie tra gli schemi mentali e i cicli biologici e da questi si spinge fino alle strutture dissipative per ricomporre una continuità tra i processi fisico-chimici, le forme più elementari della vita e le espressioni più elevate del pensiero. Piaget fornisce una base epistemologicamente rigorosa alla continuità tra natura e cultura, tra passato e presente, tra cose e animale, tra animale e uomo. Con Piaget il quadro mitologico delleLezioni, si trasfigura in quadro epistemologico. La Consistency in modo simmetrico all’Esattezza fornisce le basi epistemologiche alla Visibilità come l’Esattezza alla Leggerezza. Tout se tient.

(Per la distinzione tra quadro “mitologico” e quadro “epistemologico” cfr. qui a lato).

 





Voci correlate

La presente pagina fa parte di un ipertesto sulle Lezioni americane di I. Calvino e sulle Metamorfosi di Apuleio.

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